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«Ma tu chi sei?». Il caso Farhad Bitani

Farhad Bitani lo abbiamo scoperto noi, dedicandogli una sensazionale copertina (“Io che lapidavo le donne”) nel novembre di tre anni fa. Da allora ad oggi lo hanno scoperto tanti altri, soprattutto a partire dalla pubblicazione della sua autobiografia L’ultimo lenzuolo bianco. Pubblico di centri culturali di tutta Italia e soprattutto studenti delle medie superiori hanno avuto la fortuna di incontrare e ascoltare questo ex capitano dell’esercito afghano, figlio di un alto esponente dei mujaheddin, convertito dall’odio in nome di Dio e dal gusto del potere all’amore di Dio e alla gratuità del dono di sé al mondo, per il bene del mondo. Una conversione frutto dei segni della benevolenza divina, dall’essere sopravvissuto a un agguato dei talebani all’aver incontrato in Italia persone che in questi anni di separazione dalla famiglia di origine sono state per lui fratello, sorella e madre.

Dopo la prima presentazione del libro, avvenuta a Torino il 7 maggio 2014, Farhad ha ricevuto decine di inviti da tutta Italia e anche dall’estero (Spagna). Ha tenuto più di cento incontri, da solo o insieme a correlatori, e prima dell’estate, se la salute regge, onorerà un’altra trentina di appuntamenti. È stato dappertutto da Trento a Salerno, dalla Sardegna al Veneto, un dozzina di volte soltanto a Milano. Al tavolo degli oratori si sono seduti con lui giornalisti e ministri, docenti universitari e personalità religiose cristiane, islamiche ed ebraiche. Tutti sono stati travolti dalla sincerità e dalla freschezza della sua testimonianza, sono rimasti turbati e affascinati dalla sua storia. Il libro è diventato un miracolo editoriale: prodotto da una piccola casa editrice (Guaraldi), ha venduto quasi 10 mila copie, 3.100 delle quali sono state autografate dall’autore.

Nessun gruppo, partito, movimento, organizzazione ha promosso la sua tournée. Le cose sono sempre nate grazie al passaparola. «La maggior parte degli incontri non sono stati esito di un’attività promozionale», spiega Farhad, «ma sono nati sempre dall’invito di uno studente o un docente o un genitore che aveva avuto occasione di ascoltare una mia testimonianza o aveva incontrato qualcuno che era rimasto colpito ascoltandomi. Sono stato invitato anche da numerosi centri culturali e associazioni, sia giovanili che di carattere diverso, e anche da alcune parrocchie».

La sorpresa della libertà
Per quanto l’incontro sia stato preparato e annunciato, per quanto il personaggio sia stato presentato a grandi linee, il clima che si crea non appena Farhad comincia a parlare è quello della sorpresa. Anche i più sospettosi e disincantati nei confronti dei musulmani e nei confronti della dimensione religiosa in generale, alla fine non possono non ammettere di essere stati colpiti e cambiati dall’incontro fatto. «Sì, la reazione generale è la sorpresa. Tutti arrivano con un’aspettativa, a volte positiva, a volte negativa, poi l’aspettativa finisce per essere superata. Me ne accorgo dal silenzio che si crea anche tra le platee di studenti più sbandati e dalle domande che mi vengono poste. La mia più grande soddisfazione è vedere persone che si dichiarano atee cambiare atteggiamento nei confronti di Dio. Più di un volta mi è capitato di incontrare ragazzi che al termine della mia testimonianza sono venute a dirmi: “Io non ho mai creduto in Dio, ma ascoltandoti mi sono reso conto che Dio deve esistere”. Oppure insegnanti che mi hanno detto: “In questa scuola nessuno ha mai potuto parlare di Dio senza essere ostracizzato o deriso, tu invece hai parlato di Dio per due ore e tutti pendevano dalle tue labbra”».

«Un’altra reazione che mi commuove è quella di chi si sente mosso al bene; per esempio ricordo un ragazzino delle medie che mi inviò un messaggio su Facebook: “Dopo averti ascoltato volevo tanto fare qualcosa per gli altri. Oggi ho aiutato una signora anziana a portare la sua borsa della spesa”. In un altro caso, i ragazzi di una scuola hanno fatto una colletta per acquistare la legna necessaria al riscaldamento di una casa famiglia gestita da una mia amica in Afghanistan».

A volte il cambiamento di atteggiamento avviene nel corso stesso dell’incontro pubblico, in modi del tutto inaspettati. «I ragazzi generalmente hanno il cuore più aperto e semplice, ma ricordo con commozione un signore anziano che durante una mia testimonianza in un salone parrocchiale si è alzato dicendo: “Tu dici il falso perché Maometto non è un profeta e Gesù è il Figlio di Dio”. Allora io gli ho spiegato che tutte le religioni sono frutti dello stesso giardino, che la cosa più bella è la diversità e nella diversità è bello che ci siano il rispetto e il dialogo. Al termine dell’incontro questo signore è venuto ad abbracciarmi con le lacrime agli occhi e mi ha detto: “Perdonami, figliolo: ho parlato come un vecchio pazzo”».

 

Ciò che sorprende nella testimonianza di Farhad non è lo schema che vede il passaggio dall’islam estremista all’islam moderato, ma il suo insistere sul fatto di essere un musulmano che ha approfondito la sua fede in Dio e ha risposto alla chiamata di Dio grazie all’incontro con alcuni cristiani. «Su questa cosa le reazioni sono diverse e non sono uniformi né tra i cristiani né tra i musulmani. In tutte le reazioni c’è un denominatore comune che è la fatica a comprendere come ciò sia stato possibile. In molti cristiani ho trovato un desiderio di capire. Per esempio ricordo una studentessa che mi domandò se secondo me fosse giusto che lei si convertisse all’islam, come richiesto dal suo fidanzato marocchino per sposarla. Io le risposi che se lei è nata in una tradizione cristiana deve innanzitutto approfondire la propria identità cristiana, e se alla fine del suo percorso scopre che il cristianesimo non soddisfa il suo cuore, allora può cercare la propria identità nell’islam, altrimenti la conversione non serve a nulla. Questa ragazza dopo qualche tempo mi scrisse che aveva iniziato il percorso che le avevo suggerito e il suo fidanzato l’aveva accettato. Naturalmente ci sono anche alcuni che rimangono diffidenti, sia tra i cristiani che tra i musulmani, ma questo succede perché non accettano di fare un percorso personale».

Sessioni di dialogo applicato
Ci sono domande che tornano identiche di appuntamento in appuntamento: «Mi chiedono spesso perché parlo tanto di Dio, come faccio a essere sicuro dell’intervento di Dio nella mia vita. Poi mi fanno domande sul fondamentalismo, su come contrastarlo, sul problema dell’immigrazione. Spesso mi chiedono della mia famiglia, dei miei rapporti con il mio Paese».

Farhad è rimasto ammirato del modo in cui gli studenti di alcune scuole hanno voluto realizzare l’incontro con lui. «Due appuntamenti in particolare mi hanno colpito. Uno è stato davvero speciale, perché un gruppo di allievi di un liceo di una città del nord Italia anziché invitarmi nella loro scuola, hanno voluto organizzare una trasferta in orario extrascolastico insieme al preside e ad alcuni insegnanti per venire a vedere di persona dove vivo e come lavoro. Abbiamo così organizzato una sessione in cui i ragazzi hanno potuto incontrare, insieme a me, altri immigrati, ci hanno posto domande e abbiamo dialogato; in seguito abbiamo proseguito il dialogo in un incontro pubblico per terminare con una bella cena. L’altro incontro che ricordo sempre volentieri è quello con i ragazzi di una scuola media che mi hanno invitato alla presentazione del lavoro che hanno fatto sul mio libro: hanno lavorato a gruppi, ciascuno su un capitolo, e hanno raccolto domande e riflessioni che poi hanno messo in comune presentandole a tutta la scuola».

Un amore più grande
Ma ancora più che della serietà e del desiderio di incontro autentico di tanti giovani italiani, Farhad si rallegra dello sguardo stupito che tanti hanno portato su di lui alla fine di una serata: «Mi colpisce sempre quando le persone mi chiedono meravigliate: “Ma chi sei?”. Non lo dico per un compiacimento narcisistico. Quello stupore mi impressiona perché scorgo in esso un’apertura all’amore di Dio, come se chi mi vede intuisse che ciò che c’è di più vero nella mia testimonianza non è la mia persona, ma un amore più grande che è entrato nella mia vita e l’ha cambiata».

La diffusione del libro di Farhad Bitani e i suoi incontri con ragazzi di tutta Italia hanno provocato anche reazioni ostili. Che non l’hanno per niente scosso. «Ci sono due tipi di reazioni ostili con cui mi sono scontrato: quella dei fondamentalisti miei compatrioti che hanno lanciato su di me accuse di apostasia, di essermi convertito al cristianesimo e di aver raccontato falsità, e qui in Italia quella di chi per pregiudizio non si fida di ciò che dico. Non ho cercato di rispondere alle accuse, ho continuato a far conoscere a più persone che potevo la mia esperienza: io ho scoperto che, pur con tutta la violenza che ha caratterizzato la mia vita nell’infanzia e nella giovinezza, nel mio cuore è sempre rimasto un punto bianco che non è stato cancellato; questo punto bianco ha iniziato a emergere quando ho incontrato persone, diverse da me per cultura e religione, che mi hanno amato gratuitamente. Ho dato credito a quella realtà che Dio metteva nella mia vita, ho cominciato a confrontarmi con loro. Il cambiamento che è avvenuto in me può accadere a tutti, perché tutti gli esseri umani nascono con questo punto bianco nel cuore».

La forza di andare avanti
Gli attacchi dei terroristi jihadisti a Parigi nel gennaio e nel novembre dell’anno scorso non hanno inceppato la testimonianza di Farhad, al contrario: l’hanno resa più urgente, gli inviti a parlare sono diventati più numerosi. Ha condiviso la tribuna con personalità come il ministro degli Interni Angelo Alfano e il ministro spagnolo dell’Immigrazione Maria del Corral. «Le persone potenti che mi ascoltano, quando hanno un cuore sensibile come quei due ministri, capiscono che per svolgere al meglio i loro compiti devono riservare attenzione alla testimonianza diretta di chi ha vissuto in prima persona i drammi che essi sono chiamati ad affrontare senza averne avuto la stessa esperienza diretta».

Comunque sia, Farhad non ha mai fatto caso se chi lo invitava era gente importante o gente comune, se lo avrebbero ascoltato in pochi o in tanti. È andato nelle grandi città come nelle piccole località, massacrandosi di fatica per conciliare la sfilza degli incontri pubblici con gli impegni di lavoro a Torino, dove per mantenersi fa il mediatore culturale. Per rispondere a una chiamata: «Io non voglio che nessun bambino debba crescere come sono cresciuto io, nella violenza e nella menzogna. Dio ha salvato la mia vita, tante volte, fin da piccolo. Ho rischiato di morire sotto le bombe o sotto i proiettili, ho visto la gente intorno a me cadere. Io sono stato preservato e di questo privilegio dovrò rispondere a Chi me l’ha concesso. Questa consapevolezza, insieme all’amore di mia mamma che sempre mi accompagna, mi dà la forza di andare avanti».

Rispondere alla chiamata all’inizio costa, ma presto rende la vita ricca e fruttuosa. Piena di rapporti umani autentici. «La mia vita è diventata sempre più appassionante. Quando ho iniziato il mio percorso la mia vita era un deserto, mi sentivo abbandonato da tutti. Pur avendo già riconosciuto che la mia vita era stata salvata per un compito e avendo già incontrato l’umanità diversa che mi si era fatta incontro attraverso piccoli gesti di carità, mi sembrava che la mia strada fosse bloccata. Poi Dio ha mandato dal cielo l’aiuto giusto e la strada è diventata fiorita. Ora sono circondato dall’amore della gente oltre che dall’amore di Dio. Moltissime persone sono rimaste in contatto con me, specialmente studenti. Molti di loro hanno scritto delle tesi a partire dalla mia testimonianza. Per ora spero che sia durevole il cambiamento che si è generato in tanti che hanno fatto propria la mia testimonianza e ora la diffondono».

Le reazioni in patria e in famiglia
In Afghanistan qualcuno ha accusato Farhad di apostasia per il suo libro, altri si sono schierati dalla sua parte. I rapporti con suo padre rimangono difficili. «Recentemente il parlamento afghano mi ha attribuito una onorificenza come cittadino che lotta per la libertà. Questo è successo grazie all’impegno di un mio cugino, entusiasta del mio successo in Italia. Però è abbastanza ironico il fatto che nessuno sappia esattamente quale sia il contenuto del mio libro che, benché sia stato pubblicato anche in inglese, ben pochi in Afghanistan hanno letto… D’altra parte gli afghani sono musulmani, ma pochi di loro hanno letto il Corano. Mio padre non approva la mia scelta di allontanarmi dal potere e dal Paese e ostenta indifferenza nei mie confronti, ma io sono sicuro che questo lo fa per convenienza sociale: in fondo al cuore credo che sia orgoglioso di me come lo è mia mamma».

Nel futuro di Farhad, oggi profugo in Italia, c’è la speranza di un ritorno da cittadino italiano in Afghanistan e per il resto c’è l’affidarsi alla volontà di Dio. «Il futuro lo immagino sicuramente diverso dal presente: la mia strada deve crescere. Non potrò fare il mediatore culturale per tutta la vita e non potrò stare fermo in Italia, ma come questo futuro si delineerà ancora non lo so. Dio sempre mi ha riservato delle grandi sorprese e credo che mi sorprenderà ancora».
Fonte: Farhad Bitani, musulmano cambiato dai cristiani | Tempi.it

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