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Quei figli senza rete nel mare del web

Stalking, diffamazione, ingiurie, minacce, molestie, diffusione di materiale pedo-pornografico: gli italici pargoli non si sono fatti mancare proprio niente esibendosi online nel ruolo del bullo. Nel 2015, i casi che hanno visto coinvolto un minorenne come parte attiva sono stati 228, come dimostra – dati alla mano – la Polizia postale.

Non è una novità che le infinite possibilità di internet e delle reti sociali siano diventate un’arma impropria imbracciata dai prepotenti di ogni età, sesso e condizione sociale per tormentare il prossimo. Che, in rete, tanto prossimo non è: la distanza fisica tra il persecutore e la vittima è un invito a nozze per gli spietati e una trappola per gli sprovveduti e i superficiali, quelli che si illudono che postare sia meno grave che pestare. È assodato: la tecnologia facilità il disimpegno morale, non ti costringe a vedere il dolore sulla faccia di chi hai appena malmenato o insultato. Perché sentirsi in colpa? Occhio non vede, cuore non duole. Il dolore della vittima, al contrario, si moltiplica all’ennesima potenza, messa alla berlina su una piazza illimitata, davanti allo sguardo di una moltitudine di utenti. Senza un angolo dove scappare. I fatti di cronaca raccontano di suicidi e tentati suicidi, di bambine e adolescenti che hanno visto una sola via di fuga, un solo modo di sottrarsi al branco, ancora più feroce nella versione digitale. Non potendo cancellare insulti e maltrattamenti dalle rete, hanno cancellato se stesse.

È un grave errore ostinarsi a considerare l’universo dei social – e il web in generale – un universo virtuale. Si tratta, piuttosto, di una dimensione ulteriore delle nostre esistenze, reale tanto quanto il mondo materiale, pervasiva oltre il desiderabile ma anche, ormai, irrinunciabile. Può darsi che l’idea non sia entusiasmante ma bisogna farci i conti. È un modo per difendersi. Per comprendere che i media digitali non sono né magnifici né orribili ma tutte e due le cose insieme: le tecnologie sono sempre neutre, sta a noi scegliere di usarle in maniera positiva e non negativa. E insegnare a fare altrettanto ai nostri ragazzi.

Ma per i digital natives, i nativi digitali ormai cresciuti, pronti a diventare genitori o che lo sono già, si affaccia una nuova definizione, Hyperconscious Facebook Generation, la generazione dell’iperconscio, per cui non c’è particolare, neppure il più insignificante, che non meriti di essere messo in piazza (naturalmente quella digitale), che non valga la pena di raccontare su Facebook: punti di vista originali e, più spesso, banali, esperienze scontate o – raramente – elettrizzanti, informazioni personali, anche le più intime… Tutto viene sbandierato. Ma su internet ogni post è per sempre e per tanti se non per tutti. L’impulsività è imperdonabile perché pentimenti non sono ammessi. Come si fa a convincere i bambini e i ragazzi che non devono seminare dati sensibili in giro per il web se sono gli adulti, i primi a dare un pessimo esempio? Ieri mattina, nell’ambito delle celebrazioni per il Safer Internet Day, Vincenzo Spadafora – il Garante dell’infanzia – metteva in guardia i genitori dal postare le foto dei figli, un’abitudine che ha definito «compulsiva».

La prudenza dovrebbe essere imposta per legge: guardare lontano, pro-videns, prefigurandosi le conseguenze di ogni azione. Così come, agli adulti, dovrebbero essere “consigliati” corsi di alfabetizzazione digitale: imparare – per poi insegnare – le strategie di sopravvivenza nell’oceano digitale. Se navigassero con prudenza, se qualcuno li accompagnasse nel viaggio o almeno tracciasse per loro la rotta, difficilmente un ragazzo su dieci – sempre di minori si parla – si sarebbe imbarcato lungo le rotte del sexting, l’invio di immagini o messaggi sessualmente espliciti, neppure – come hanno confessato agli intervistatori di Telefono Azzurro – quattro su cinque frequenterebbero abitualmente siti porno, né che inneggiano all’anoressia o al suicidio.

Non lasceremmo mai che i nostri bambini andassero da soli per la strada senza prima aver insegnato loro ad attraversare sulle strisce, a guardare a destra e a sinistra prima di muovere un passo, a rispettare i semafori. Perché lasciare che si tuffino, senza salvagente, tra le onde del web? Non sarà la Rete a salvarli…

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