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«Immobile per la Sla. Ma salvo il mondo»

Sarà forse il sorriso che si coglie dietro la lavagnetta in plexiglas che utilizza per comunicare. O il volto disteso nonostante le cannule collegate al respiratore. Ma quando Giovanna «parla», con gli occhi che si muovono fra le lettere a dare materia ai pensieri intrappolati nel corpo immobile, nella stanza cala un’improvvisa serenità, si avverte la sensazione che certo si sta parlando con una persona malata – gravemente malata, di quella «bastarda malattia» chiamata Sla – ma non si ha di fronte una donna disperata. Nonostante sia inchiodata in un letto e il suo rimanere in vita dipenda ormai da un macchinario e dall’assistenza giorno e notte.

«Certo che mi sono arrabbiata all’inizio della malattia», racconta Giovanna De Ponti Conti, 65 anni. «Quando nel 2008 mi è stata diagnosticata la Sla ho visto subito i malati più gravi al centro Nemo di Niguarda, a Milano, e sapevo ciò a cui andavo incontro. Piano piano, però, ho cominciato a capire che occorre scegliere anche ciò che non hai scelto, amare ciò che non hai voluto, farlo diventare una tua preferenza». Di preferenze non scelte Giovanna ne ha dovute imparare ad amare altre, come quando nel 1988 il marito Lodovico fu ucciso a coltellate da alcuni ladri che si erano introdotti nel suo ufficio. Un delitto rimasto impunito, che ha lasciato lei sola a crescere sei figli, dai 17 anni di Cinzia ad appena uno di Filippo, passando per l’adolescenza e l’infanzia di Ivano, Maria, Stefano e Tommaso.

Ma come si fa ad amare ciò che non hai scelto? A non perdere la speranza, la voglia di vivere? La risposta sta nascosta in quello che Giovanna ha dichiarato di getto a un suo amico, quando, saputo della malattia, le ha domandato: «Ma cosa vuole ancora Dio da te?» «Che io gli voglia più bene». Sta qui forse il segreto, in questo amore donato, restituito e che si allarga vivificando. «Ho sempre pensato – ci spiega, lettera dopo lettera – che Gesù non fa niente contro di noi e quindi tutto ciò che succede è alla fine per un bene». Di ritorno da un viaggio a Lourdes aveva scritto: «Come Lui compirà la mia felicità è un mistero, ma io so che quello che voglio adesso è amarlo. Al resto ci penserà Lui… Lui che non mi ha mai imbrogliato».

Ci vuole coraggio per amare, ed è proprio questo coraggio che il Comune di Bresso (Milano), dove Giovanna è nata e abita da sempre, ha voluto premiare nei giorni scorsi con un’onorificenza destinata ai cittadini che si sono distinti in opere di solidarietà o di utilità sociale. Sì, perché oltre al coraggio di continuare a vivere si può far del bene anche bloccati in un letto, con una pompa a soffiarti il respiro in gola.

«Mi sono chiesta – ha scritto Giovanna nel discorso letto alla premiazione da uno dei figli –: per che cosa vale la pena che io viva in queste condizioni? L’ho capito due anni fa, quando la persona che mi assiste di notte ha deciso di fare la prima Comunione e la Cresima a 45 anni. Solo perché io le avevo detto che sarebbe stato meglio per lei ricevere questi sacramenti. Allora mi è tornata in mente la frase di un mio amico che dice che il mio sacrificio vale per il dolore di tutti gli uomini, allevia il dolore di tutti gli uomini. Magari c’è una persona che sta soffrendo in Giappone e quella persona alla fine del mondo mi dirà grazie. Ho quindi capito che le mie fatiche in qualche modo possono contribuire a salvare il mondo, la Chiesa e tutti gli uomini, le donne e i bambini, in particolare chi viene ucciso per la propria fede».

«Salvare il mondo». Giovanna ha sempre quel suo sorriso sul viso, ma non un muscolo si muove, se non il battito delle ciglia e il roteare degli occhi lungo la lavagnetta. Eppure ha l’ambizione – no, la quieta coscienza, ti pare di cogliere – di «salvare il mondo» lì in quel letto, forte solo del pensiero, della preghiera, di un cuore vigile. Un cammino di salvezza per lei e per tutti che passa per un Calvario, ma è capace di guardare oltre. A quell’«arco di luce» che attraversa la nostra vita e la trascende, che Giovanna ha scelto come titolo di un racconto per i figli (divenuto poi libro), scritto dopo la morte del marito.

Perché – annotò allora – «oggi capisco che il tempo della vita ci è dato perché la carne si trasfiguri… la carne è la condizione, la circostanza da amare, là dove essa vive e si consuma… perché è lì che la verità nasce e non si cristallizza in dottrina». Amare la carne che si trasfigura per coglierne la verità, il valore intrinseco. Amare anche ciò che non si è scelto, amare chi è lontano e sconosciuto ma condivide con te quella stessa carne che la vita e la fede, l’amore e il dolore trasfigurano.

La carne trasfigurata dalla malattia è sempre là nel letto, appesa ai macchinari, ma respira, si dilata, vive del contatto continuo con tante persone. I figli e i nipoti anzitutto, ma anche molti amici di Comunione e liberazione, bressesi che si alternano nelle visite e nel fare compagnia. «Io non so perché vengano. So che a me portano il mondo qui dentro», si schermisce Giovanna, nella sua stanza piena del ricordo di persone scomparse e di foto di momenti felici.

Spiegarlo non è semplice, se però tanti affollano questa casa non è solo per spirito di misericordia verso un malato ma evidentemente perché sentono di ricevere qualcosa, o meglio: di viverlo insieme. Avvertono di condividere un abbandonarsi, un «sì» che non è né rassegnazione né fatalismo, ma quella coscienza scandalosa che davvero solo amando si salva il mondo, oltre che se stessi. Anche a prescindere dai nostri limiti, dalle avversità, dalle malattie per quanto invalidanti siano. E che ciò è possibile solo se, prima di tutto, ci si lascia amare, in «modi tanto misteriosi» da essere incomprensibili, a volte addirittura inaccettabili.

Non è facile né mai dato per acquisito il cammino verso quell’«arco di luce» che unisce terra e cielo. «Ci sono giorni in cui prego Gesù di guarirmi e altri che lo invoco di portarmi via – racconta ancora Giovanna –. Accade soprattutto di notte, quando non riesco a dormire e i fastidi sono tanti. Ma al mattino ringrazio di essere in vita e chiedo la grazia di rimanere attenta ai bisogni di chi viene a trovarmi». Certa, dice, che «l’ultima parola della nostra vita non è fine ma bene». Ed è il dono di Natale con cui anche io torno a casa.

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