SARZANA – Vecchi maestri per una nuova Europa
— 3 Settembre 2015 — pubblicato da Redazione. —Settant’anni fa l’Europa pareva ridotta a un cumulo di macerie ma forse proprio a causa delle ferite più sanguinose che la deturpavano poteva ancora aspirare ad essere la coscienza stravolta del mondo, l’eminenza grigia in grado di indicare al pianeta i sentieri da percorrere. Fra le tante vittime cadute sui fronti bellici o bruciate nei forni crematori c’erano stati uomini come Dietrich Bonhoeffer il quale, nel discorso per il battesimo del figlio del suo amico più caro, Eberhard Bethge, invitò le generazioni che sarebbero venute dopo a una nuova vita sociale: «Voi penserete solo ciò di cui dovrete assumervi la responsabilità agendo».
Fino a che punto siamo stati in grado di realizzare tale indicazione? Abbiamo saputo coniugare in un nesso profondo le parole pronunciate alle azioni conseguenti? Sono domande che, in questi anni di serrate contrattazioni sui destini di uomini e donne nati in contrade meno propizie delle nostre, dovrebbero farsi in molti: i burocrati di Maastricht, i funzionari di Bruxelles, i leader politici, certo. Ma nel caso in cui se le ponessero soltanto loro, avremmo lasciato irrisolto il compito primario che l’esortazione del grande teologo tedesco, fatto impiccare da Adolf Hitler nel lager di Flossenbürg, sottende: cambiare la prospettiva vitale di ognuno, uscendo dalla solitudine che ci attanaglia.
A quelle richieste, moti interiori, spine nel fianco, doverose speranze, dovremmo tentare di rispondere tutti. Il Vecchio Continente invece, questa carcassa di beni preziosi, vetrine scintillanti, pubblicità che ruotano cieche nella notte urbana, oggi sembra muto, come un gigante appesantito, paradossalmente imprigionato dalla medesima libertà che si è conquistato a caro prezzo, quasi non volesse più alzarsi in piedi a dire la sua, proprio lui che semmai, specie nel ventesimo secolo, ha sempre fatto il contrario, parlando spesso a vanvera, a sproposito, fino al punto di lasciare campo libero alle menti depravate che lo hanno disonorato.
E così, eccoci impegnati, nel tempo veloce dell’epoca informatica che, oltre a spalancare imprevedibili frontiere, rischia di inaridire il senso pieno dell’esperienza autentica, in un semplice disbrigo amministrativo delle quote di migranti da assegnare alle nazioni chiamate in causa, quasi che la feroce volontà di sopravvivenza capace di spingere Mohamed ad attraversare il deserto del Sahara per venire a lavorare da noi fosse una semplice questione di protocollo; o che gli occhietti vispi di Xiang, assorto mentre ricopia i verbi irregolari al tavolo del ristorante dei suoi genitori, nato in Italia ma non ancora nostro concittadino, potesse ridursi a un problema burocratico. In realtà, dietro molti richiami all’urgenza dei provvedimenti concreti da attuare, bando alle chiacchiere e ai buonismi, veniamo al sodo, diteci cosa vorreste fare, si nasconde la paura del confronto, il timore di smarrire la bussola.
Ma nella paralisi teoretica degli intellettuali di fronte alle stragi quotidiane degli immigrati c’è anche qualcosa di più. Non sono serviti a niente i palombari degli abissi, gli esploratori dell’inconscio, i mitici cavalieri solitari della cultura novecentesca. Ci avevano esortato ad accogliere l’Altro, fuori e dentro di noi. Ad abolire le frontiere, geografiche ed interiori. A guardare la Medusa senza restare impietriti.
Appena i nuovi dannati della terra sono apparsi all’orizzonte, minacciando il povero tesoretto del piccolo risparmiatore, tutti i deliri sono svaniti. I monologhi interiori si sono rivelati saghe liriche. Le poetiche moderne, tese a enfatizzare la pura invenzione artistica, semplici favole boscherecce. I tristi tropici hanno finito per assomigliare a una materia accademica, gli artisti d’avanguardia sembrano operatori pubblici, il colonialismo si è trasformato in un album fotografico.
C’è un lavoro umano lasciato incompiuto. Per fare in modo che Rashdur e Alina rinforzino, invece di smascherare, quella che Alain Finkenkraut ha definito ‘l’identità infelice’ dell’Europa, la Francia dovrebbe tornare a riflettere, prima ancora che sul ginocchio sbucciato del giovane Albert Camus quando giocava da portiere alla periferia di Algeri, sulla radicalità dei suoi spiriti profetici, da Charles de Foucault all’Abbé Pierre; la Spagna troverebbe giovamento nell’umanesimo tragico di Miguel de Unamuno; la Gran Bretagna dovrebbe risarcire, una volta per sempre, il colonnello Lawrence. E noi italiani avremmo tutto il diritto di guardare con occhi nuovi una delle ultime foto di don Lorenzo Milani: quella in cui tiene in braccio un bambino congolese che, insieme alla sua famiglia, era andato a trovarlo a Barbiana.
Fonte: Avvenire.it
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