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Se volete davvero aiutare i poveri, non date loro il reddito di cittadinanza

«Io li conosco i poveri, entro in casa loro tutte le settimane a portare loro un pacco di alimenti. Il modo peggiore per aiutarli è garantire loro una mancia che li lasci nella loro solitudine inerte»

Gentile direttore, non sono un economista, nella vita faccio tutt’altro mestiere, ma nel mio piccolo vorrei far sapere ai membri del nostro governo che il reddito di cittadinanza è una sciocchezza che farebbero meglio a evitare di introdurre in Italia. Non parlo solo di spreco di risorse (su quello, ripeto, non ho molta competenza né l’autorità per discutere con chi sa far di conto meglio di me), ma per una ragione più semplice e personale.

Faccio parte di un ente caritativo che, periodicamente, consegna a persone in stato di necessità un pacco di alimenti. Entro quindi, letteralmente, in casa di quei poveri di cui il Movimento Cinque Stelle dice di volersi occupare. Le situazioni con cui sono venuto in contatto in questi anni sono davvero drammatiche: persone senza lavoro, sostanzialmente sole, sfiduciate e molto arrabbiate. Arrabbiate col mondo, con la sorte, con un “sistema” da cui si sentono abbandonate ed escluse. Le persone che vivono grazie a questo pacco sono quei poveri di cui a tutti piace parlare, ma che pochi conoscono. Io li conosco, so che per loro anche un pacco di zucchero o una bottiglia d’acqua sono beni preziosi, da custodire e centellinare.

Ebbene, vorrei dire al ministro Di Maio e agli altri cinquestelle: non date loro il reddito di cittadinanza. Ripeto: se volete aiutarli, il modo peggiore è dare loro questa mancia, questo stipendio, questi soldi. Queste persone non hanno bisogno di quattrini, ma di qualcuno che le aiuti a rialzarsi, a mettersi in movimento, a riattivare nella loro vita un senso, uno scopo. Dar loro dei soldi, non risolverà il problema: semplicemente lo tamponerà per qualche tempo, li illuderà per poi lasciarli più arrabbiati di prima. Qualche giorno fa ho letto una frase di Milton Friedman (lui, sì, un economista) che condivido in pieno: «Se tu paghi la gente che non lavora e la tassi quando lavora, non essere sorpreso se produci disoccupazione».

I cinquestelle dicono che organizzeranno dei corsi di aggiornamento, di formazione e chi non li frequenta – zac! – non avrà più il reddito. Non so, non ho la sfera di cristallo e, probabilmente, qualcuno che dopo il corso troverà lavoro, ci sarà. Ma temo non sarà la maggioranza. Io temo che la maggioranza troverà qualche espediente per frequentare col minimo dispendio di impegno i corsi e intascare il reddito. Alla fine, non troverà alcun impiego, e sarà nella stessa situazione di prima, solo che lo Stato, per un periodo più o meno lungo, avrà dato loro dei soldi.

Forse sono troppo pessimista, forse mi sbaglio. Ma per quella che è la mia piccola esperienza, la povertà di queste persone non è, innanzitutto, economica. L’indigenza è figlia di una povertà esistenziale: mancanza di rapporti, innanzitutto, solitudine e, dunque, di fiducia in sé e nel mondo. E che fa un uomo sfiduciato? Sta a casa, sul divano, aspettando lo Stato che lo aiuti. Non si muove, pretende. Non fa, attende.

Se lo Stato dà a queste persone il reddito di cittadinanza le farà certamente felici. Ma li immobilizzerà ancor più nella loro condizione inerte. Non hanno bisogno di una carezza (economica), ma di una scossa (amichevole e umana). Anziché dar loro i soldi bisognerebbe favorire tutte quelle realtà caritative presenti in Italia che GIÀ si occupano di loro. Che GIÀ entrano nelle loro case. Che li conoscono, che li aiutano in una maniera più intelligente e più prossima di quello che può fare uno Stato, inevitabilmente, lontano. Quelle realtà che sanno che se dai ai bisognosi 50 euro, quelli se li bevono, li spendono alle macchinette dei bar, al poker on line.

Le situazioni sono tante, le persone diverse, le esigenze le più disparate. Nemmeno io voglio generalizzare, ma, appunto, pensare che con una mancia le si possa risolvere tutte, mi pare assurdo. Mi pare più intelligente, più efficace e – oso dire – pure più economico per le casse dello Stato, aiutare chi li aiuta: favorire quelle forze sociali che entrano nelle case di queste persone, che le conoscono, per le quali questi poveri non sono un numero di fianco all’Isee, ma dei volti, magari feriti, ma dei volti.

Caro direttore, mi perdonerà se non mi firmo, ma non vorrei che qualcuno pensasse che ho scritto questo cose perché spero che lo Stato aiuti la mia associazione. Non l’ho fatto per questo, ma perché tengo molto a quei bisognosi che vado a trovare periodicamente e a cui porto il pacco di viveri. Hanno bisogno del pane, ma hanno soprattutto bisogno di persone in carne e ossa che condividano la loro situazione e, quindi, li aiutino. Lo Stato – anche lo Stato più efficiente del mondo (e non mi pare il nostro caso) – questo non lo potrà fare mai.

Lettera firmata

Caro amico, hai proprio ragione. I poveri non hanno bisogno della careità (intesa come mancia), ma della Carità (intesa come condivisione dell’umano destino). [eb]

Fonte: Tempi.it

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