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SINODO GIOVANI – Verso il Sinodo con tanti film: GLI SDRAIATI #10a proposta
— 18 Luglio 2018— pubblicato da Redazione. —
GLI SDRAIATI
di Francesca Archibugi
con Claudio Bisio, Gaddo Bacchini, Cochi Ponzoni, Antonia Truppo,
Gigio Alberti
Italia 2017 // Durata: 103 minuti // Commedia
Il film in un tweet
Giorgio Selva, celebre giornalista televisivo, “condivide” il figlio Tito con la
ex moglie. Lui – diciassettenne – ciondola con una banda scriteriata di amici
e affronta tutto con l’inerzia vitale tipica dell’adolescenza. Il padre cerca di
instaurare un dialogo con lui ma fa molta fatica e non sa da che parte incominciare
per entrare in sintonia.
La sfida
Dietro a questa sensazione giovanile per cui tutto sembra indifferente – in definitiva
non capace di segnare la loro esistenza – si nasconde anche altro? Che
cosa li tocca davvero? Che cosa li muove dalla loro posizione orizzontale?
La condizione umana
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Michele Serra che con un
lungo monologo esprime il solo punto di vista del padre, il film della Archibugi
sembra concedere una possibilità in più alla generazione “stesa sul
divano”, provando ogni tanto a lasciargli alcuni spazi. Da una parte c’è il
corpo di Giorgio che accoglie ma dall’altra c’è quello vitale di Tito che sgomita.
Da una parte gli orizzonti limitati del padre ma dall’altra l’illimitatezza
del figlio. Tito insomma appartiene a un altro mondo che appare “sdraiato”
ma che di fatto non lo è! È semplicemente chiuso allo scambio con il padre.
E Giorgio, che non si rassegna a questa chiusura e si sente spesso in colpa
per non riuscire a comunicare, continua a sperare in un momento di condivisione
con lui.
La chiusura del film, come quella del libro, è ben augurante. Lo “sdraiato”,
apparentemente indifferente alle nostalgie del padre, sente la “voce del
sangue” che lo chiama fino a quando si decide ad ascoltarla e a seguirla
lungo un sentiero di montagna. Sul Colle della Nasca, Tito porta sé stesso e le
sue scarpe sbagliate, l’irriducibile differenza della sua generazione e la qualità
inafferrabile della sua esistenza. Ma lassù il figlio supera il padre, senza che
egli nemmeno se ne accorga, e avanza verso la vita adulta. Giorgio lo guarda
come qualcosa di irraggiungibile, arrendendosi finalmente a una forza che non
può più governare.
Una rilettura del film teologico-pastorale
a cura di Emanuele Poletti, direttore Ufficio per la pastorale dell’età evolutiva della
diocesi di Bergamo
Quali le questioni “pastorali” che il film solleva? Certamente la questione dello
sguardo degli adulti che si pone sulla realtà. Se attraverso il suo lungo monologo,
il libro presentava l’occhio del padre verso il figlio e il film, pur nel garbo
del suo intreccio narrativo, cercava di mostrare anche quello del figlio nei confronti
del padre, l’attenzione pastorale che la Chiesa è chiamata ad avere nei
confronti delle giovani generazioni non può fermarsi soltanto qui. La questione
educativa non si esaurisce infatti in uno sguardo reciproco tra le parti, anche
se a volte potrebbe essere già tanto. Se di “sguardo educativo” si tratta, questo
deve essere, anche e innanzitutto, del padre su sé stesso, degli adulti in generale
verso loro stessi. Uno sguardo non neutro ma realistico e sapiente. Diceva
Papa Francesco ai gesuiti polacchi durante la GMG del 2016: «Oggi la Chiesa
ha bisogno di crescere nel discernimento, nella capacità di discernere». Nel
film Giorgio assume frequentemente uno sguardo introspettivo ma rischia di
rimanere avvitato su sé stesso. Quando si guarda, è spesso assalito da un vago
senso di colpa che gli impedisce di compiere quel sano discernimento che
oggi più che mai è necessario alla generazione adulta per potersi rapportare
efficacemente con i suoi figli. Parafrasando ancora Papa Francesco, verrebbe
da chiedersi: «Chi vogliamo essere noi adulti per i nostri figli?». Ovvero: «Chi
è Giorgio per suo figlio?».
La seconda questione pastorale – e legata certamente alla prima –, è quella del
miglior “format educativo” da attivare per aiutare le giovani generazioni a crescere.
In tal senso Giorgio è lodevole: in lui non viene mai meno la ricerca per
la modalità educativa più efficace. Come per la Chiesa del resto: da sempre è
stata attraversata da questo desiderio capace di assumere anche forme “rabdomanti”.
E non poche volte – così come la buona umanità in genere – è riuscita a
cogliere i fondamenti dell’esistenza cui nessun essere umano risulta insensibile
e a comporli in luoghi strutturati capaci di riflessione e di educazione. Che
cosa sono in fondo le scuole oppure gli oratori delle nostre parrocchie? Nella
sua pacatezza, il film offre sicuramente alcuni passaggi in questo senso. Ne
ricordiamo uno su tutti che mostra la buona capacità generativa di un efficace
“format educativo”: il funerale del nonno materno di Tito. Il suocero di Giorgio
è stato uno dei pochi adulti (forse perché anziano?!) capace di ingaggiare
efficacemente gli “sdraiati” chiusi in loro stessi. Il suo funerale, dove la bara
è portata a spalla proprio dai più giovani, è una delle poche occasioni in cui
lo sforzo, il coraggio di metterci la faccia, la riconoscenza gratuita per il bene
ricevuto – cose impossibili per degli sdraiati – emergono senza problemi. Segno
che il processo educativo ingaggiato dall’adulto ha funzionato. E non può
non provocarci. Non solo rispetto a chi vogliamo essere per i nostri giovani
ma anche rispetto “a che cosa siamo chiamati a fare” in questo “cambiamento
d’epoca” dove ogni grammatica condivisa dell’educare è saltata e la vocazione
che ci caratterizza ci impone di non smarrire quella passione educativa che da
sempre ci caratterizzalungo un sentiero di montagna. Sul Colle della Nasca, Tito porta sé stesso e le
sue scarpe sbagliate, l’irriducibile differenza della sua generazione e la qualità
inafferrabile della sua esistenza. Ma lassù il figlio supera il padre, senza che
egli nemmeno se ne accorga, e avanza verso la vita adulta. Giorgio lo guarda
come qualcosa di irraggiungibile, arrendendosi finalmente a una forza che non
può più governare.
Una rilettura del film teologico-pastorale
a cura di Emanuele Poletti, direttore Ufficio per la pastorale dell’età evolutiva della
diocesi di Bergamo
Quali le questioni “pastorali” che il film solleva? Certamente la questione dello
sguardo degli adulti che si pone sulla realtà. Se attraverso il suo lungo monologo,
il libro presentava l’occhio del padre verso il figlio e il film, pur nel garbo
del suo intreccio narrativo, cercava di mostrare anche quello del figlio nei confronti
del padre, l’attenzione pastorale che la Chiesa è chiamata ad avere nei
confronti delle giovani generazioni non può fermarsi soltanto qui. La questione
educativa non si esaurisce infatti in uno sguardo reciproco tra le parti, anche
se a volte potrebbe essere già tanto. Se di “sguardo educativo” si tratta, questo
deve essere, anche e innanzitutto, del padre su sé stesso, degli adulti in generale
verso loro stessi. Uno sguardo non neutro ma realistico e sapiente. Diceva
Papa Francesco ai gesuiti polacchi durante la GMG del 2016: «Oggi la Chiesa
ha bisogno di crescere nel discernimento, nella capacità di discernere». Nel
film Giorgio assume frequentemente uno sguardo introspettivo ma rischia di
rimanere avvitato su sé stesso. Quando si guarda, è spesso assalito da un vago
senso di colpa che gli impedisce di compiere quel sano discernimento che
oggi più che mai è necessario alla generazione adulta per potersi rapportare
efficacemente con i suoi figli. Parafrasando ancora Papa Francesco, verrebbe
da chiedersi: «Chi vogliamo essere noi adulti per i nostri figli?». Ovvero: «Chi
è Giorgio per suo figlio?».
La seconda questione pastorale – e legata certamente alla prima –, è quella del
miglior “format educativo” da attivare per aiutare le giovani generazioni a crescere.
In tal senso Giorgio è lodevole: in lui non viene mai meno la ricerca per
la modalità educativa più efficace. Come per la Chiesa del resto: da sempre è
stata attraversata da questo desiderio capace di assumere anche forme “rabdomanti”.
E non poche volte – così come la buona umanità in genere – è riuscita a
cogliere i fondamenti dell’esistenza cui nessun essere umano risulta insensibile
e a comporli in luoghi strutturati capaci di riflessione e di educazione. Che
cosa sono in fondo le scuole oppure gli oratori delle nostre parrocchie? Nella
sua pacatezza, il film offre sicuramente alcuni passaggi in questo senso. Ne
ricordiamo uno su tutti che mostra la buona capacità generativa di un efficace
“format educativo”: il funerale del nonno materno di Tito. Il suocero di Giorgio
è stato uno dei pochi adulti (forse perché anziano?!) capace di ingaggiare
efficacemente gli “sdraiati” chiusi in loro stessi. Il suo funerale, dove la bara
è portata a spalla proprio dai più giovani, è una delle poche occasioni in cui
lo sforzo, il coraggio di metterci la faccia, la riconoscenza gratuita per il bene
ricevuto – cose impossibili per degli sdraiati – emergono senza problemi. Segno
che il processo educativo ingaggiato dall’adulto ha funzionato. E non può
non provocarci. Non solo rispetto a chi vogliamo essere per i nostri giovani
ma anche rispetto “a che cosa siamo chiamati a fare” in questo “cambiamento
d’epoca” dove ogni grammatica condivisa dell’educare è saltata e la vocazione
che ci caratterizza ci impone di non smarrire quella passione educativa che da
sempre ci caratterizza.
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