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Jannik Sinner, perché quella mano segnata è importante al di là del tennis

 Jannik Sinner saluta il pubblico sventolando la mano destra subito dopo il torneo di Vienna, appena vinto in rimonta contro Alexandre Zverev, un gesto di sobria esultanza, come solito suo. La foto di quel gesto dal profilo Instagram ufficiale diventa virale. Ad attirare l’attenzione non sono tanto il successo o il gesto, ma il palmo del giocatore, che manda un messaggio controcorrente nel mondo contemporaneo.

Jannik Sinner saluta il pubblico sventolando la mano destra subito dopo il torneo di Vienna, appena vinto in rimonta contro Alexandre Zverev, un gesto di sobria esultanza, come solito suo. La foto di quel gesto dal suo profilo Instagram ufficiale diventa virale, la Rete se la passa senza sosta. Ad attirare l’attenzione non sono tanto il successo o il gesto, ma il palmo della mano destra. Lì per lì la si direbbe sporca di terra rossa, ma il torneo di Vienna si gioca al chiuso sul cemento: quei segni rossi sono i calli, le pressioni della racchetta impugnata giorno per giorno.

La mano è l’emblema della fatica e dell’impegno quotidiano di un lavoro manuale, che, per quanto pagatissimo, non si può evitare né delegare. Colpisce quella mano perché ricorda al mondo che il successo in un campo in cui bisogna dimostrare (vale per lo sport, per la musica, per lo studio…) è una conquista di fatica quotidiana, che è stata anche dolore perché prima che un callo così maturi si mettono in conto abrasioni, vesciche e piaghe: una fatica che non può essere delegata ad altri o ad altro, né sostituita da nessun dispositivo, da nessun surrogato, da nessuna IA, da nessuna scorciatoia, ma che quando le partite si fanno dure torna in termini di allenamento fisico e mentale a resistere.

Un messaggio cifrato, magari involontario, che suona controcorrente in giorni in cui fanno notizia atti giudiziari che citano precedenti inesistenti, forse frutto di interventi dell’Intelligenza artificiale, smascherati da Cassazione e Tar; in un tempo in cui i professori universitari vivono con il sospetto che gli esami scritti possano essere truccati dal ricorso a dispositivi elettronici nascosti; in una fase storica in cui ci si illude che basti copiare i compiti a cosa da Google, perché tentati di credere che la fatica di studiare sia inutile, tanto è forte la tentazione di credere che portare uno smartphone in tasca da interrogare all’occorrenza sia un valido surrogato della conquista della conoscenza.

La palla corta, oggi tanto efficace nel gioco di Sinner, e ormai diventata naturale come ha ammesso a Vienna lo stesso giocatore, non è frutto di puro talento, di naturalità istintiva, ma di fatica, di lavoro, di infinite ripetizioni, di tentativi e di errori, di pazienza e frustrazione, di conquista al prezzo dell’impegno, dell’abnegazione, della noia. Tutte parole un poco fuori moda in un tempo storico, in cui – ci insegnano gli esperti – sono spesso gli stessi adulti a rimuovere i concetti di fatica e frustrazione dall’esperienza della crescita.

Mentre è solo allenandosi a fare ciò che non si ha già nelle corde e non viene facile che si impara davvero, come ogni bravo insegnante incontrato nella vita ci ha dimostrato.

Il percorso che ha portato il ragazzo che picchiava tutte le palline e conosceva solo un pressing asfissiante da fondo campo al vertice del tennis mondiale è la puntigliosa quotidiana conquista di colpi mancanti: la palla corta che adesso c’è, ormai completamente automatizzata; le volée che sono a ottimo punto e all’occorrenza portano il punto anche se possono rivelare ancora margini di miglioramento; il servizio sempre più efficace ma ancora in affinamento. Mattoncini sbozzati e acquisiti al cantiere del gioco una ripetizione alla volta, di cui i segni sulla mano, insieme al gioco che progressivamente si arricchisce, sono la prova.

Fonte: Elisa Chiari | FamigliaCristiana.it

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