“No mafia”. “Il coraggio di dire di no”. “Non c’e’ futuro dove comanda il terrore”. “La mafia teme la scuola”. Sono le parole d’ordine impresse su centinaia di cartelli issati davanti al Palazzo di giustizia di Palermo nel 33esimo anniversario della strage di Capaci. Tremila studenti, anche i più piccoli, hanno simbolicamente “occupato” la piazza antistante, tra slogan, danze e laboratori. Si è rinnovato così il legame tra il mondo della scuola, gli avvocati e i magistrati palermitani per “Tribunale chiama scuola”, iniziativa organizzata dall’Ordine degli Avvocati di Palermo, Associazione nazionale magistrati di Palermo e Rete per la Cultura Antimafia nella Scuola. In piazza Vittorio Emanuele Orlando performance musicali e letture in memoria delle vittime di Capaci. Intanto, le istituzioni hanno dato il loro omaggio a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta uccisi nel terribile attentato del 23 maggio 1992. «La mafia ha subìto colpi pesantissimi, ma all’opera di sradicamento va data continuità, cogliendo le sue trasformazioni, i nuovi legami con attività economiche e finanziarie, le zone grigie che si formano dove l’impegno civico cede il passo all’indifferenza» ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Per Giorgia Meloni, oggi «ricordiamo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, gli agenti della scorta, tutti coloro che hanno sacrificato la vita per difendere i valori della legalità. E con loro, ogni vittima caduta per mano mafiosa. Il loro esempio e il loro ricordo continuano a guidare la nostra azione».
I volti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino sorridono complici, dalle pareti del corridoio che conduce nell’ufficio del procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia. In mattinata, l’uomo che ora ci accoglie nel suo studio al secondo piano del vecchio Palazzo di Giustizia, ha partecipato a una piccola cerimonia, nell’Aula magna del Tribunale. «Abbiamo accolto otto nuovi giovani magistrati ordinari in tirocinio, per quella che in gergo tecnico si chiama messa in possesso – racconta -. Sono tutti ragazzi che non erano nati quando sono avvenute le stragi di Capaci e Via D’Amelio, ma i loro genitori, che erano presenti, c’erano e ricordavano. Questo per noi vuol dire fare memoria: sapersi ispirare al sacrificio di chi è diventato un simbolo e un esempio nella lotta alla mafia. Per questo, l’inizio di una carriera è stato un passaggio che io e il presidente del Tribunale, Piergiorgio Morosini, abbiamo voluto celebrare con una certa solennità». Per de Lucia, che era a Palermo come sostituto procuratore da solo un anno, il 1992 fu sin da subito uno spartiacque. «Ero esattamente come questi ragazzi» dice. Trentatré anni dopo, il magistrato che ha coordinato le indagini che hanno portato all’arresto di Matteo Messina Denaro rimane convinto che Cosa nostra continui «a dimostrare una preoccupante capacità di resilienza, nonostante i colpi ricevuti, e ad esercitare un fascino indiscusso verso le nuove generazioni». Quanto allo Stato, «il problema più grosso ormai è il governo delle carceri, dove va ripristinato l’ordine pubblico. C’è una fascia di criminali in regime di alta sicurezza che sta continuando tranquillamente a comunicare con l’esterno in tutti i modi e questo non possiamo permettercelo» spiega.
Procuratore De Lucia, cosa ricorda della stagione delle stragi?
Ero l’ultimo sostituto arrivato in Procura, l’11 maggio 1991. Il 29 agosto di quell’anno venne ucciso Libero Grassi, il 12 marzo dell’anno dopo Salvo Lima. Di Falcone ricordo il pranzo in occasione del compleanno che facemmo come Procura il lunedì prima della sua morte, di Borsellino un saluto due giorni prima della bomba: guardavi a loro e dovevi provare rispetto e pudore, anche solo nell’avvicinarti. Vivevano in un’altra dimensione. Dopo le stragi, ci ritrovammo tutti qui. Era evidente che lo Stato era finito sotto attacco, che noi tutti eravamo dentro uno scenario libanese, di guerra alle istituzioni. Il nostro lavoro cominciò allora.
Cosa ha contato di più nella reazione?
La capacità di imparare un metodo, il metodo Falcone. Io e altri magistrati abbiamo studiato tutto quello che si poteva studiare: non solo i suoi scritti e i suoi libri, ma come conduceva gli interrogatori, spesso dimostrando di saperne di più di chi aveva davanti. Quella capacità di mettere insieme le cose è diventata un modello che abbiamo col tempo replicato e ormai moltiplicato. Oggi le conoscenze personali sulle organizzazioni criminali sono conoscenze socializzate nel sistema della Dna e della Dda, la Direzione nazionale antimafia e la Direzione investigativa antimafia. Abbiamo ormai un bagaglio di saperi unico.
Lei ha sempre detto che dovremo arrivare a un futuro senza mafia. A che punto siamo?
Attenzione: noi dobbiamo creare le condizioni per cui Cosa nostra non esista più, ma nello stesso tempo dobbiamo stare in guardia. Troppi minimizzano il ruolo delle cosche. Troppi, soprattutto dopo i recenti blitz, pensano che nella Cupola oggi siano rimasti soltanto quattro straccioni. Non è così. Nel 2006, quando venne arrestato Bernardo Provenzano, spuntò un pizzino in cui Matteo Messina Denaro diceva in modo sconsolato: qui ormai hanno arrestato tutti, anche le sedie… Se consideriamo che, per stessa ammissione dei propri boss, Cosa nostra era in difficoltà già allora, possiamo dire che vent’anni dopo la mafia nonostante tutto è viva e vegeta e che, anche se la nostra attività ha spesso individuato con successo strutture e persone responsabili di disegni criminali, ciò non è bastato a distruggerla. Siamo di fronte a una capacità di resilienza da parte dei clan che si è rivelata preoccupante.
Dove si percepisce questa forza criminale che non viene meno?
Penso alla questione generazionale. Più della metà dei 181 arrestati nel maxi-blitz di tre mesi fa ha meno di 40 anni. Ciò significa che la mafia affascina ancora oggi e che è in grado di reclutare un pezzo importante dei nostri giovani e giovanissimi. Questo dipende innanzitutto da quel che rappresenta Cosa nostra nell’immaginario collettivo. Il contenuto di certe fiction televisive ha esercitato ed esercita tuttora un grande richiamo per i ragazzi. Ne ho avuto diretto riscontro da diversi insegnanti, in occasione dei miei incontri nelle scuole, che sono fondamentali per me per misurare la diffusione del senso di legalità nel Paese. Poi conta l’assenza di alternative, l’estrazione sociale. Resta, infine, una percezione distorta del fenomeno mafioso, tipica del carattere di questa terra e non solo: spesso questo provoca un senso diffuso di diffidenza verso lo Stato. Ricorderà certamente quanto accadde ai tempi del Covid, quando Cosa nostra si mise a erogare servizi in concorrenza con gli enti pubblici, distribuendo viveri e generi alimentari ben prima delle istituzioni. Sono cose che la gente poi non dimentica facilmente.
Dopo la cattura e la morte di Messina Denaro, lei sottolineò che la mafia per continuare ad esistere aveva bisogno di un vertice. La riorganizzazione è in corso?
Oggi siamo in presenza di una struttura più orizzontale, che però lascia intatta la forma antica di Cosa nostra. L’ordine impartito da un capo unico, riconosciuto da tutti, è stato al momento sostituito da un accordo tra i vari mandamenti, garantito da un flusso di informazioni senza precedenti, condiviso grazie agli strumenti della comunicazione digitale, che sono rapidissimi e che permettono alle cosche di scambiarsi informazioni attraverso telefonini e piattaforme criptate. Noi ad esempio ci aspettavamo un rallentamento nel traffico di stupefacenti, dopo le ultime operazioni: nulla di tutto questo è avvenuto, perché gli affari sono proseguiti regolarmente proprio grazie a questo mutato scenario.
A questo proposito, lei ha più volte denunciato la disponibilità massiccia per i detenuti di microsim e cellulari criptati con cui comunicare da dietro le sbarre con l’esterno.
Il carcere resta un grande problema. Oggi è previsto il 41-bis per i boss più pericolosi, un meccanismo efficace perché consente in chiave preventiva di tenere lontani i capi dalle loro organizzazioni criminali. L’isolamento in questi casi è necessario. C’è però tutta una fascia di mafiosi, che non sono boss ma neanche gregari, che è detenuta in regime di alta sicurezza: sono i soggetti che ci danno i problemi più importanti, perché possono appunto comunicare con l’esterno con estrema facilità. Con il loro smartphone, fanno di tutto. Abbiamo intercettato un soggetto che era entrato in carcere la mattina e che il pomeriggio parlava al telefono con la madre, a cui chiedeva di portare accappatoio e ciabatte per poter fare la doccia. Com’è possibile?
Cosa è necessario fare?
Primo: riprendere il controllo delle carceri, ripristinando l’ordine pubblico. In prigione, purtroppo, entra di tutto e succede di tutto. Secondo: servono più agenti e più personale che sappia assistere i detenuti. Non basta un letto. Terzo: se c’è un problema di governo degli istituti penitenziari, allora occorre una riforma complessiva che immagini carceri dignitose, dal punto di vista abitativo, sociale e rieducativo. Quarto: ci vogliono pene afflittive e pene rieducative, visto che queste ultime sono importanti in particolare per quei soggetti incapaci di rielaborare il trauma della detenzione, come i tossicodipendenti. In carcere, purtroppo, si vede ancora chi conta e chi no.
La Procura di Palermo dovrebbe avere 62 pubblici ministeri, a fine 2023 ne aveva 47. Ora quanti sono? Quando entreranno in servizio i nuovi magistrati?
Siamo sempre sotto organico, la situazione non è cambiata. Devo dare atto però che c’è stata una programmazione di concorsi per i magistrati da parte del ministero della Giustizia che è stata molto consistente: stanno entrando in ruolo quasi mille magistrati a livello nazionale. C’è un turnover da colmare, perché c’è chi se ne va, però ora speriamo che con l’ingresso dei più giovani si possa riempire questo divario. È inutile che le dica che riponiamo grandi speranze nelle nuove leve di magistrati, come quelli che abbiamo accolto oggi: i trentenni del 2025 conoscono benissimo gli strumenti dell’informatica e il diritto comunitario, elemento sempre più decisivo nelle indagini e nei processi. Per questo, resto ottimista. I futuri magistrati sanno che per loro è iniziata una nuova pagina di storia, che dovranno scrivere in prima persona. Hanno il dovere della memoria e dell’impegno. Chissà la vita dove li porterà.
Fonte: Diego Motta | Avvenire.it