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Il passaggio di testimone fra due inquietudini

Mi sono chiesto quale sia stato il punto di contatto tra Francesco e Leone nel passaggio di testimone del pontificato. Tra Benedetto e Francesco era stato chiaro: «Le sfide dei rapidi mutamenti e le sfide delle questioni di grande rilevanza per la vita della fede», come disse (in latino) Ratzinger congedandosi. Bergoglio tradusse queste sfide in una «sana inquietudine», l’unica «che dà pace», imprimendo un lento ma costante e francescano terremoto alla vita della Chiesa.

Ed è «inquietudine» la parola che Francesco il 28 agosto 2013 raccomandò in una formidabile omelia all’allora padre Prevost, generale dell’Ordine di Sant’Agostino, e al suo capitolo riuniti nella loro chiesa in Campo Marzio. Ero a Santa Marta quando Francesco partì per recarsi dagli agostiniani, e ricordo che mi congedò ripetendomi: «Inquietudine! Inquietudine!». Ed è inquietudine la prima parola che Leone pronuncia nella sua omelia di inizio del ministero petrino, riprendendo alla lettera quelle di allora del suo predecessore. Ma Francesco sapeva di lasciare questo mondo benedicendo a Pasqua un mondo che — aveva appena scritto — «si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura» (Laudate Deum) per cui la Chiesa doveva essere segno di dialogo, incontro, di fraternità, al di là del fallimento della Rivoluzione francese e pure di quell’illuminismo che aveva espulso il cuore dai ragionamenti e aperto le porte all’artificio dell’algoritmo (Dilexit nos).

Leone riprende da qui, dal cuore che «non ha posa finché non riposa ». E l’unico riposo è Dio. Inquietudine è dunque il vero testimone che passa di mano tra i due papi nella loro corsa. Su uno scenario di sgretolamento al quale Leone, da buon agostiniano senza esiti luterani, è sensibilissimo. Per lui gettare le reti da pescatore è «gettare lo sguardo lontano, per andare incontro alle domande, alle inquietudini e alle sfide di oggi». Parlando della dottrina sociale della Chiesa, pochi giorni fa aveva precisato che essa «non vuole alzare la bandiera del possesso della verità, né in merito all’analisi dei problemi, né nella loro risoluzione. In tali questioni è più importante saper avvicinarsi, che dare una risposta affrettata».

Parole di importanza capitale che dicono con chiarezza se non i contenuti del pontificato, almeno il metodo. E l’obiettivo: «affrontare i problemi, che sono sempre diversi, perché ogni generazione è nuova, con nuove sfide, nuovi sogni, nuove domande». Ha tratti rassicuranti per tutti Prevost, che sono quelli del felino che incede pacifico come il leone Aslan delle Cronache di Narnia di Lewis. Non ha i tratti della belva che cattura «con la propaganda religiosa o con i mezzi del potere», come ha tenuto a precisare. Colpo netto questo a ogni cesaropapismo e collateralismo.

Prevost sposa in pieno la critica agostiniana a una religione intesa come parte essenziale di tutta la costruzione simbolica e immaginaria che sostiene la società attraverso un potere sacralizzato. Il fondamento radicale del suo ministero è solamente l’aver «sperimentato nella propria vita l’amore infinito e incondizionato di Dio». Leone conferma che la «vera autorità» della Chiesa di Roma è la carità di Cristo. E decostruisce dunque l’immagine del capo come «condottiero», come pure quella della pseudo-setta, il «nostro piccolo gruppo» — come l’ha chiamato –, quello di chi si sente «superiore al mondo». La Chiesa non è un reggimento, ma «segno di unità e di comunione» che diventa «fermento per un mondo riconciliato».

Ma — attenzione —aggiunge un aggettivo di non poco conto: «piccolo lievito», contro ogni tentazione di grandeur. Esso cade in quel mondo in sgretolamento che Francesco aveva denunciato. «Troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri», lamenta Prevost con le stesso note del suo predecessore. E la paura del diverso è vinta perché la pace e la verità del Vangelo sono «disarmate e disarmanti».

È da questo punto di osservazione che Leone fa appello all’unità. Non da una chiamata all’ordine, ma dal bisogno di fare «strada insieme» tra i cattolici — che invece spesso hanno tradotto in modo spurio le differenze in polarizzazione –, tra le Chiese cristiane sorelle, ma anche «con coloro che percorrono altri cammini religiosi, con chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà». Inquietudine, appunto. L’unità vera «non annulla le differenze», ma le assume e le valorizza. E quella delle diversità sarà certamente una grande sfida positiva del pontificato di Leone, chiamato — senza essersi candidato ad esserlo — alla statura morale di unico riferimento di valore globale che, come tutta la Chiesa, «si lascia inquietare dalla storia».

Fonte: Antonio Spadaro | LaRepubblica.it

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