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PRIMO MAGGIO 2025/ Non diritti da festeggiare, ma un lavoro da riscoprire

Si è consumato il rito del Concertone del Primo Maggio. Festa del lavoro. Un lavoro cui non siamo più affezionati, perché ne abbiamo perduto il senso

Il Concertone del Primo Maggio 2025 si è chiuso con un bagno di folla, tante esibizioni e nessun vero slogan politico. Centomila in piazza, playback più o meno evidenti, un palco eterogeneo e, soprattutto, l’assenza di prese di posizione nette, come molti invece si aspettavano. Unica vera invocazione corale, quella lanciata dai Patagarri per la Palestina libera, che ha provocato la reazione indignata della comunità ebraica. Per il resto, tra i ricordi musicali e le proteste silenziate, ha dominato una sensazione generale di grande festa, ma anche di confusione.

La presenza più significativa — benché discreta — è stata quella di Papa Francesco, con un video messaggio registrato prima della sua scomparsa, il 21 aprile. Le sue parole, “i lavoratori non sono pezzi di ricambio generatori di profitto”, sono risuonate in un contesto che avrebbe avuto bisogno di farne memoria viva, e non semplice tributo. Nessuno ha davvero raccolto la sfida contenuta in quel messaggio: tornare a pensare il lavoro come luogo di dignità e trasformazione, e non come semplice prestazione da tutelare.

La verità è che oggi chiediamo — legittimamente — più diritti per i lavoratori, ma abbiamo smarrito il senso del lavoro. Ne parliamo molto, lo difendiamo nelle piazze, ma non lo amiamo. Ci battiamo per renderlo più sicuro, più equo, più “vivibile”, ma troppo spesso lo consideriamo solo una fatica da sopportare. Come possiamo allora pretendere più garanzie per un’esperienza che, in fondo, non riconosciamo più come nostra?

Il lavoro non è solo mezzo di sostentamento. È rapporto con il reale: con la materia, con il tempo, con gli altri. È l’ambito in cui l’uomo costruisce il mondo e si costruisce. Ma se questo legame con la realtà viene meno, il lavoro diventa puro obbligo, e la richiesta di diritti rischia di essere una difesa sterile di qualcosa che non si desidera più vivere.

Durante il concertone, Achille Lauro ha evitato qualsiasi cenno allo spot con McDonald’s, nonostante le proteste dei lavoratori; Ghali ha sorvolato sul tema Palestina, pur mostrandosi promotore del referendum sulla cittadinanza. Brunori ha ironizzato sul “troppo” che abbiamo — pace, diritti, democrazia — provocando un sorriso amaro. Ma in nessuno si è sentito vibrare il cuore vero della questione: perché lavoro? Per chi? Che cosa costruisco lavorando?

In assenza di questa domanda, il lavoro si riduce a teatro di rivendicazioni ideologiche, o a luogo di sopravvivenza. Perfino la riflessione sui femminicidi, inizialmente prevista, è saltata; anche il racconto del lavoro come esperienza umana è stato messo tra parentesi.

Ciò che manca oggi non è solo una buona legge, ma una nuova coscienza. Una visione del lavoro come via di umanizzazione, come esercizio di libertà e responsabilità. Non si tratta solo di essere pagati per lavorare, ma di imparare a lavorare per essere.

Finché continueremo a chiedere che il lavoro ci rispetti senza imparare a rispettarlo, rimarremo prigionieri di un’economia che produce frustrazione, disincanto e rabbia. Il concertone di quest’anno lo dimostra: molta musica, poca realtà.

Forse è tempo di tornare a un’idea più profonda. Meno slogan, più verità. Meno playback, più realtà.

Fote: Federico Pichetto | IlSussidiario.net

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