Arriva nelle sale “Perfect Days”, il nuovo lavoro del regista tedesco premiato a Cannes per l’interpretazione del giapponese Koji Yakusho e appena entrato nella shortlist per la corsa agli Oscar
«Ho ambientato a Tokyo la storia di Hirayama, un uomo sereno addetto alla pulizia dei bagni pubblici I suoi piccoli gesti sono essenza del bene comune» È stato senza dubbio uno dei cinque film più amati dell’ultimo Festival di Cannes, dove lo scorso maggio ha vinto la Palma per l’interpretazione del giapponese Koji Yakusho. È appena entrato nella shortlist dei titoli internazionali in corsa per l’Oscar, dove un po’ a sorpresa rappresenta il Giappone, mentre nelle nostre sale arriverà il prossimo 4 gennaio distribuito da Lucky Red.
Perfect Days di Wim Wenders, che sulla Croisette ci è arrivato anche con il bellissimo documentario Anselm, ritratto del pittore e scultore tedesco Anselm Kiefer, è un vero capolavoro, un film semplice e politico, che attraverso i gesti quotidiani del protagonista suggerisce la possibilità di un’altra esistenza, più serena, autentica, in armonia con se stessi e la realtà che ci circonda. Il regista, che sembra tornato allo “stato di grazia” di molti dei suoi lavori precedenti, ha scelto di ambientare la storia a Tokyo (città del cuore di Wenders, nella quale aveva già realizzato Tokyo-Ga nel 1985), dove Hirayama, un uomo tranquillo e gentile, lavora come addetto alla pulizia dei bagni pubblici della città, per poi godersi natura, musica e libri nel tempo libero.
Alle spalle ha un passato misterioso, fatto di privilegi e lussi poi abbandonati, ma lui ha imparato a vivere qui e ora, come un monaco zen, ed è felice del posto che occupa nel mondo, certo di contribuire con la sua serena disciplina al bene pubblico, il più prezioso di tutti. Un concetto che è stato proprio la scintilla destinata ad accendere questo racconto, scritto dallo stesso Wenders con Takuma Takasaki.
«Quella del bene comune è una questione cruciale oggi – afferma il regista – perché dopo la pandemia si è purtroppo tornati alla normalità pensando esclusivamente a se stessi. A Tokyo mi sono accorto che i cittadini, dopo il lockdown più lungo di tutti, hanno dimostrato grande rispetto verso ciò che appartiene a tutti, come strade e aree verdi, ad esempio, mentre a Berlino il piccolo parco vicino al quale vivo è diventato una discarica». Lavorare con Yakusho, attore assai celebre in patria, è stato alquanto singolare in un film girato in soli 17 giorni.
«Ho scritto il ruolo di Hirayama proprio per lui, ma non potevamo parlare senza l’aiuto di un traduttore. Presto però ci siamo abituati a comunicare con il linguaggio del corpo, con gli occhi, e abbiamo cominciato a capirci così bene che bastava un piccolo gesto per aggiustare il tiro di una scena. Avevamo l’impressione di realizzare un documentario su un personaggio di finzione, tanto che ho cominciato a girare senza fare più prove, affidandomi all’intuito di Yakusho».
Secondo il regista, Hirayama è la dimostrazione di come la bellezza possa restare invisibile agli occhi, mentre la routine del protagonista diventa una sorta di quotidiano rituale. «Una routine che struttura la sua vita, ma più la osservi e più capisci che non è affatto noiosa o logorante, anzi regala al protagonista la libertà di godersi molti momenti della sua giornata, pensando al presente e non al futuro. Hirayama non pretende di impartire lezioni di vita a nessuno. Io stesso mi chiedo spesso se non sarebbe fantastico avere una routine che mi dia stabilità. In realtà la routine mi manca, riesco a seguirla solo quando giro i film, ma fuori dal set la mia vita è piuttosto confusa».
Nessuno sembra accorgersi di Hirayama, modesto uomo delle pulizie, ma a lui non sfugge nulla. «Lui, invisibile ai più, ha invece occhi per raggiungere tutti. E rispetta tutti, anche il senzatetto che vive vicino alla toilette pubblica. Non conosce rabbia e ha un cuore grande per le piccole cose». Il desiderio di una vita più semplice si riflette nello stile adottato nel film.
«Raccontando la storia di un uomo che ha semplificato la propria vita, che possiede solo cose che ama o di cui ha realmente bisogno, era necessario limitare al massimo le nostre possibilità tecniche, girando solo con la camera a spalla, con poca luce e con un formato old fashion, quello dei vecchi film di Don Camillo e Peppone o del cinema muto, tanto per intenderci. Mia moglie Donata è stata la nostra “dream crew”, la nostra cacciatrice di sogni, quelli del protagonista, che a fine giornata rievoca la luce filtrata dalle foglie e che si riflette sul pavimento. Piccoli gesti, volti apparentemente insignificanti. Donata è sempre con me sul set come direttrice della fotografia, amo il modo in cui è presente, è la principale testimone di quello che accade ogni giorno».
Tra gli oggetti di cui il protagonista ama circondarsi ci sono le vecchie musicassette che ascolta mentre è alla guida, quelle della sua giovinezza. «Ci ho messo le canzoni che pensavo sarebbe bello ascoltare, ma poi mi sono chiesto se non stessi imponendo la mia musica e i miei gusti – dai Rolling Stones a Lou Reed, da Patti Smith a Nina Simone – a un giapponese. Takasaki mi ha rassicurato sul fatto che i giovani giapponesi in quegli anni ascoltavano esattamente le stesse canzoni, belle e personali, che raccontano delle storie. E così la mia compilation è diventata la colonna sonora del film».
La parola “old fashion” torna spesso nella conversazione con Wenders. Come un bisogno. «Trovo che il linguaggio del cinema contemporaneo abbia un volume decisamente troppo alto e che contenga troppa violenza in termini di velocità e rumore. La mia speranza era che dopo la pandemia molti cominciassero a vivere diversamente, io ho scelto di farlo, ma in generale non è andata così. Il cinema resta però un posto meraviglioso dove riconsiderare la nostra idea di esistenza. Anche se è un personaggio utopistico, con una vita che non potremmo scegliere per noi, Hirayama ci aiuta a riflettere sulle nostre scelte, offrendoci una proposta di vita alternativa, meno avida e vorace, più calma e sostenibile. Quello che in fondo ognuno di noi sogna davvero, non per nostalgia, ma per un reale bisogno di rallentare. In una realtà iper connessa e squassata da guerre crudeli dobbiamo domandarci se questo è il mondo nel quale vogliamo invecchiare e che desideriamo consegnare ai nostri figli».
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