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Sono ancora vivo?

Durante l’ultimo anno di superiori propongo agli studenti di trovarci a tu per tu al bar della scuola a fine lezioni per mangiare quello che chiamo un panino imbottito «di futuro». Io li ascolto, senza interrompere, perché dicano ad alta voce, a se stessi prima che a me, dove vogliono indirizzare speranze ed energie. Ascoltando cerco di separare la voce che appartiene ad altri, carica di aspettative e a volte anche di illusioni o menzogne, e la voce più autentica, quella che appartiene a loro e da cui dipende la loro vocazione.

Oggi non trovando il tempo di fermarci a pensare né tanto meno ad amare, non riusciamo a creare lo spazio di ascolto che permette all’altro di venire alla luce, di nascere. E poiché siamo immersi in una cultura che fa precedere il fare all’essere, nell’educazione inconsapevolmente cerchiamo di produrre effetti più che coltivare possibilità. Infatti affrontando il tema del futuro gli studenti cominciano a parlare subito di professione e non di un progetto di vita più ampio che includa anche la professione (d’altronde per conoscerci oggi chiediamo «che fai?” e non «chi sei?»). E così i ragazzi, per poter essere, si immaginano in una forma del fare già costituita e voluta dal mondo, ma il futuro non è una forma fatta, bensì da generare, ed è più ampia del fare, è l’essere da cui poi dipende un fare multiforme quanto i casi della vita. Come intercettarne la voce?

Se non creiamo lo spazio di consapevolezza ed energia della fioritura di ciò che c’è già in loro, prevarrà l’idea dominante della vita-meccanismo di rapporti di forza e di potere, a cui bisogna adattarsi per sopravvivere. Ma questo poi conduce, nel tempo, alle inevitabili crisi di chi si è chiuso in una forma e magari non trova il coraggio di cambiare rotta. Di Ulisse si dice nei primi versi del suo poema che «molto errò per mare». Ricordo una studentessa che spiegava quell’errare non come «l’andar cercando per tentativi la via verso Itaca», ma come «sbagliare».

Abbiamo perso la pacifica consapevolezza che la vita sia un aggiustare la rotta, e l’abbiamo sostituita con un pilota automatico di standard da rispettare, se ne sei fuori «erri»: sbagli e sei sbagliato. E questo fa così male che è meglio adattarsi piuttosto che sperimentare la solitudine della libertà se non della ribellione. Dopo avere ascoltato lo studente di turno dico: «Questo è ciò che il mondo si aspetta, e che magari tu ti aspetti da te, come chi, per esistere, si deve produrre invece che essere già. Adesso invece prova a rispondere: quando, in questi anni, ti sei sentito/a vivo/a? Essendo chi, facendo cosa e dove? E se lo ricordi: che cosa facevi da bambino/a senza che nessuno te lo dicesse? Come passavi il tempo? Che cosa inventavi? Che cosa guardavi?».

Grazie a queste domande emergono zone dell’essere che ispirano poi il fare, come le relazioni (come si fa a costruire il futuro senza sapere quali relazioni mi rendono vivo e quali invece mi spengono o soffocano?), e così si entra in uno spazio di ascolto di sé a cui oggi abbiamo poco accesso, perché siamo costantemente attivi e reattivi.

Ma solo quando si è inattivi l’essere si fa sentire, anche solo con un sussurro o magari con un lamento: ci dimentichiamo di esser «terreni» e la terra se non riposa si esaurisce. Non è un caso che la notte, momento per eccellenza in cui il fare deve lasciare spazio all’essere, grazie a riposo, silenzio e buio, si sia riempita di schermi, rumore e luci. Anche la notte è diventata tempo del fare, e più in generale evaporano i momenti di essere: leggere, pensare, meditare, passeggiare, guardare la realtà, tacere, pregare… tutte occasioni di coscienza di esistere, di presa su se stessi, di indizi di destino: scoprire e poi coltivare ciò che mi fa essere vivo.

Ascoltando i ragazzi cerco di cogliere quando parla l’anima tradita e la voce autentica, spesso accompagnata da un sorriso timido o dal gesto di proteggere il cuore, perché essere vivi è essere di fronte al mistero di sé, che è vita pura e fragile come un cristallo prezioso: cristallina. Il tedesco intuisce la stretta unità tra essere e fare, facendo coincidere nel significato di un’unica parola, beruf, lavoro e vocazione, e così con i ragazzi cerchiamo questa unità: se uno studente si sente vivo, mentre legge un romanzo in lingua straniera, cercando i sinonimi delle parole che lo affascinano, il suo futuro ha a che fare con le lingue. Se lo è nel risolvere i problemi degli altri il suo futuro è fatto di relazioni di ascolto e mediazione. Se si è sentito vivo nel prendersi cura di un gruppo di anziani o di bambini, ha nel futuro la cura dei fragili. Se lo è stato vedendo qualcuno che guida altri, ha nel suo futuro la leadership…

Potrei continuare con decine di esempi tratti dai «panini di futuro», ma bastano questi accenni per accorgersi che, per venire alla luce, abbiamo bisogno di scoprire che luce esce da noi, ascoltarci (che a volte è essere ascoltati), raccoglierci (che a volte è essere r-accolti). Jannik Sinner, cresciuto sulle Dolomiti, da genitori che gestiscono un rifugio, si era indirizzato sin da bambino allo sci agonistico con ottimi risultati, grazie soprattutto alla passione del nonno Josef, che però ha fatto sì che il ragazzino cominciasse anche a giocare a tennis. Benché il nonno preferisse lo sci, lo accompagnava agli allenamenti da Sesto Pusteria a Brunico e, insieme al primo allenatore, è stato il principale sostenitore della sua cristallina vocazione sportiva: non la racchetta da sci ma quella da tennis.

Più passa il tempo più comprendo l’importanza dell’azione fondamentale, seppur faticosa, del voler bene: dedicare tempo ad ascoltare la voce dell’altro e allenarla perché diventi vocazione. L’anno della maturità potrebbe servire proprio a questo, infatti voce e vocazione hanno in comune l’antica radice del verbo «chiamare», da cui viene, anche se non sembra, la parola «epico», il genere letterario degli eroi, coloro che ricevono una chiamata: nelle loro storie essere e fare coincidono, Ulisse «è» l’eroe che «fa» ritorno. Se vogliamo essere eroi dobbiamo provare a rispondere alla voce che già ci abita: troveremo il tempo per metterci in ascolto? E se oggi, a casa o a scuola, dedicassimo dieci minuti di silenzio a chiederci quando siamo stati vivi l’ultima volta?

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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