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La grande svolta

In questi anni tutti viviamo l’esperienza di una accelerazione della storia. Non è che il numero di cose che capitano nel mondo sia maggiore, né che il ritmo del progresso scientifico od anche soltanto tecnico sia aumentato. Certo quanto avviene nel mondo sociale può giustificare questa impressione: il mondo è divenuto e va diventando sempre più interdipendente e più piccolo, tutti i popoli praticamente hanno fatto o stanno facendo propri i valori e le tecnologie sviluppate in occidente e abbandonano le loro, talvolta millenarie, forme di vita sociale e culturale. L’egemonia europea è sparita e si vanno affermando politicamente nuove nazioni, con nuove esigenze, nuovi problemi; la nostra personale vita stessa è sconvolta dallo sviluppo economico e tecnologico ed il mondo che ci circonda, lo stesso ambiente naturale, muta rapidamente. Ma non è questo il motivo profondo dell’esperienza dì un accelerarsi della storia: è l’intuizione, più o meno consapevole, che tutte queste direttive di trasformazione non sono parallele o divergenti o autonome, ma convergono, o dovranno convergere, verso un punto e una risultante ignota; che stiamo cioè muovendoci su traiettorie che dovranno incontrarsi o scontrarsi, sicché non è la velocità che aumenta, ma la convergenza; che il nostro moto non è un libero correre entro uno spazio isomorfo e vuoto, ma un andare verso un appuntamento obbligato. La storia si accelera perché ci muoviamo verso un crocevia del destino.

Non è un’esperienza nuova né nella vita degli individui né delle società questa di un appuntamento con la storia. E l’appuntamento può essere vissuto come una speranza o una rovina. Dalla esperienza dell’individuo che sì accorge di avere davanti a sé un nuovo spazio di libertà, a quello che si accorge che la sua sorte è segnata. Dalla coppia che aspetta con ansia il primo figlio e una nuova casa, alla famiglia che si accorge di andare in rovina, dalla scoperta entusiasmante di una missione e di una fede che spinge un gruppo alla conquista del mondo, alla lucida consapevolezza di certe aristocrazie che il loro tempo è finito. Dall’aprirsi di orizzonti geografici e di pensiero nuovi e sterminati, all’intuizione intellettuale o profetica che una civiltà intera è ormai condannata.

E, anzi, queste esperienze cruciali costituiscono i punti obbligati dello strutturarsi delle personalità e delle società, i temi perenni della cultura, tanto che l’uomo e le società sembrano perfino cercarle in una volontà di rischio, di sfida. Il gioco, l’ordalia, il potlach, la guerra, costituiscono o un simbolo o un avvicinamento reale al « momentum » in cui si sa la verità, in cui si ha dei dubbi, in cui si conosce il giudizio inappellabile. E i modi per affrontare queste « crisi » (e in questo caso l’espressione è corretta) costituiscono un ampio settore della cultura, intesa come insieme articolato di soluzioni per i problemi ricorrenti, ivi incluso il controllo dell’incertezza. Le istituzioni sociali si strutturano sotto tali esigenze e, infine, perfino la personalità ha i suoi meccanismi dì difesa di emergenza.

Esperienza vecchia quindi, e ricorrente, ma per individui, famiglie, gruppi, società, imperi, non per il mondo. La differenza può sembrare da poco, ma non lo è. E non lo è perché le modalità di affrontare le esperienze di cui abbiamo detto sono modalità che, in genere, presuppongono « l’altro », presuppongono cioè un interlocutore, una persona, un sistema, una società esterna. Il gioco presuppone che altri giochino, l’ordalia che un altro vi partecipi, il potlach una gerarchia di status, la guerra un nemico. Nelle decine o centinaia di migliaia di anni della civilizzazione umana individui, gruppi, imperi hanno sempre trovato un altro fuori di sé e le modalità di soluzione dei problemi ricorrenti quali si sono calate nella nostra cultura e nel nostro linguaggio sono strutturate sulla base di questa situazione esistenziale fondamentale. Ma oggi, per la prima volta, i problemi si vanno ponendo a livello dell’intero pianeta, tutta l’umanità sta rapidamente diventando un unico « sistema sociale » e questo sistema non ha un altro sistema al di fuori di sé; non ha un altro in rapporto al quale risolvere il problema. I meccanismi millenari calati nella nostra psiche e nelle nostre istituzioni possono, nel giro di pochi decenni, mostrarsi inadeguati.

L’esempio più evidente e noto di questo stato di cose è rappresentato dalla guerra che tende oggi a porsi come guerra termonucleare. Vecchio istituto la guerra, che ancora solo pochi decenni fa era considerata una calamità si, ma inevitabile, quando non era esaltata per i valori positivi che da essa nascevano. La guerra è stata per millenni il mezzo risolutivo della storia. In una sola battaglia, in poche ore soltanto, è stato deciso il destino di imperi secolari come quello persiano, quello assiro, atzeco o incaico. La storia umana, la struttura delle nostre società, le nostre istituzioni, le reazioni, nostre soggettive, i giochi dei nostri bambini sono incomprensibili, inspiegabili senza la guerra. Ancor oggi sono in atto numerose guerre: dal Vietnam a quella indo-pachistana, alla guerriglia in almeno dieci paesi. Pochi anni fa, all’epoca della crisi cubana, la guerra termonucleare fu sul punto di scoppiare; gli americani erano già tutti pronti alla prova suprema. I1 nostro stesso linguaggio è pieno di termini bellici, lo è il linguaggio degli sportivi, pressoché totalmente bellico è il modo di parlare dei comunisti e non solo il loro. Perfino la pace è « conquistata », si « lotta » per la pace, si « sconfiggono » i guerrafondai etc.

Eppure sta per venire il momento in cui, quando non più due o tre, ma molte nazioni avranno un potenziale distruttivo tale da distruggere l’intero pianeta, questo istituto millenario, sulla cui base si sono edificate le società e che ha costruito la storia, non può non entrare in crisi, come i sacrifici umani, i processi alle streghe, l’antropofagia. Oggi queste cose, i sacrifici umani, i processi alle streghe, l’antropofagia, suscitano in noi un senso di orrore. Ma furono istituti fiorenti, modalità in cui si esprimevano non solo forze negative, ma anche positive. Dietro ai sacrifici umani c’è stata una profonda religiosità, dietro ai processi alle streghe una sincera volontà di togliere il male dal mondo, dietro alla antropofagia sentimenti elevati e culti sinceri. Per gli uomini di quel tempo i sentimenti evocati da quell’agire collettivo non erano diversi da quelli suscitati negli uomini d’oggi dalle celebrazioni patriottiche o dallo sfilare delle bandiere cariche di medaglie al valore.

Ma non solo la guerra sta per mutare il suo significato. In realtà moltissimi processi, un tempo assenti o innocui, assumono, a livello planetario, una diversa natura. Così è della crescita della popolazione che, continuando con gli attuali ritmi trasformerebbe, in meno di tre secoli, gli attuali 3 miliardi di abitanti in 600 miliardi. Per averne una idea immaginate che in Italia sì sia non in 50 milioni, ma in dieci miliardi di cui due miliardi e mezzo in Lombardia.
Ciò non avverrà, d’accordo, ma è proprio qui la questione: attraverso quali processi e a quale prezzo ciò non avverrà? Nessuna società ha mai dovuto affrontare un simile problema nel passato.

Altre minacce pesano sul pianeta: l’esaurimento, rispetto alle richieste e, in certi casi in senso assoluto, delle riserve di energia: almeno di quelle che siamo abituati ad utilizzare. Anche in questo caso se ne scopriranno delle nuove, ma anche questo significa un mutamento radicale della società, dalle sue industrie al comportamento concreto degli abitanti. Pensiamo alle trasformazioni della nostra vita dall’epoca della utilizzazione del carbone, e poi del petrolio e infine dell’energia atomica. Quali trasformazioni renderà necessarie il futuro? Anche la degradazione del suolo, l’approvvigionamento idrico e l’inquinamento atmosferico pongono problemi di, analogo tipo.
Tutte queste cose, nel loro insieme, accanto alla rivoluzione delle aspettative crescenti in atto in tutti i paesi sottosviluppati del mondo interagiscono e sottopongono i sistemi sociali a una necessità dì trasformazione radicale che non può non provocare tensioni terribili, ansietà profonde, grandi movimenti collettivi con la continua, incessante possibilità che queste tensioni interne siano elaborate secondo modalità antiche, catastrofiche però nel nuovo tempo.
Ecco perché il « duemila » ci si presenta come una svolta generale della civilizzazione; ma in cui proprio le modalità della svolta sono essenziali. Per millenni e millenni le svolte della vita degli uomini e delle civiltà sono state compiute mettendo in opera certi meccanismi umani, certe istituzioni. Oggi molti di questi meccanismi millenari in cui riponiamo cieca fiducia possono essere i più formidabili strumenti di autodistruzione. Il cambiamento sarà imposto e avverrà, è la modalità del cambiamento ciò che costituisce il problema e la responsabilità del nostro tempo. Sapremo compierlo?

Le tribù guerriere del nordamerica, quando la civilizzazione bianca si spinse all’interno, non seppero rinunciare al loro modo di vita: alla caccia nelle grandi praterie, alle guerre fra le tribù; non seppero trasformarsi, vollero salvare la loro civilizzazione, i loro valori, i loro costumi, la loro identità e la loro dignità culturale. Cambiare, per una società, significa un po’ morire e i singoli sono coinvolti in questa malattia mortale. Anche senza lo sfruttamento e le brutalità, il semplice contatto con una cultura superiore ha portato lo scompiglio nelle società che oggi si chiamano arretrate. I loro membri, a contatto e adottando i modi di vita dell’uomo bianco, perdevano il senso della loro vita. L’alcoolismo nel Nordamerica, come l’oppio in Cina, si diffuse non solo perché c’erano degli spregiudicati commercianti che lo vendevano, ma perché c’erano degli acquirenti che avevano bisogno dell’alcool e dell’oppio per trovare un senso alla loro vita che si spegneva come si spegneva la loro civiltà.
E gli indiani, di tanto in tanto, buttavano via la roba dei bianchi, smettevano di bere e restauravano gli antichi costumi e, con questi, dissotterravano l’ascia di guerra. Per tre secoli combatterono guidati dai loro profeti, fino al totale annientamento.

Una civilizzazione muta con fatica anche di fronte all’evidenza. È così drammatico e grave il prezzo di ansie del mutamento, sono così forti le tensioni interne e la disperazione che si generano che spesso preferisce autodistruggersi. Così fecero gli indiani del Nordamerica, o i Maori. I tasmaniani scomparvero totalmente ed anche i pigmei e gli aborigeni australiani sono in via di estinzione. La stessa Cina, l’impero millenario che aveva sempre resistito alla apertura all’influenza occidentale, quando, sotto i Mancioù, dovette affrontare il problema del suo adattamento ai nuovi costumi, tecniche e valori della società industriale si sfasciò. La guerra dell’oppio venne quando già la società cinese era malata di un male mortale e la rinascita Tai-ping, un sincretismo sino-cristiano, fu una risposta di guerra. Le armate imperiali la soffocarono dopo quindici anni di lotta, ma ne seguì un secolo di anarchia fino a che, dallo sfacelo, è emersa una nuova sintesi culturale, quella sino-marxista, l’unica dopo che la prima, sino-cristiana, era fallita. E anche questa è una sintesi di guerra, L’Impero Del Mezzo è risorto e, sostituendo i sacri testi di Confucio con quelli marxisti, tende a restaurare la gloria dei Tang ed esporta all’esterno la violenza che, per un secolo, lo ha dilaniato all’interno.

Al di là dalle mille cause contingenti, delle giustificazioni e dei « diritti », la guerra è ancora il grande mezzo di liberarsi delle forze autodistruttive che si scatenano nelle società coinvolte in una rapida necessità di mutamento. L’alienazione del male nel nemico permette una esperienza di solidarietà all’interno e, con la solidarietà, il sacrificio, l’altruismo, la carità, la dedizione. Ma al prezzo che esista un « altro » che accoglie in sé, come il capro espiatorio, tutto il male, la cattiveria, la colpa.
Lo scorso anno, al congresso internazionale di psicoanalisi, qui a. Milano, Franco Fornaci ha mostrato come tutto il pensiero psicoanalitico porti alla conclusione necessaria che, nella guerra, gli uomini agiscono collettivamente con gli stessi meccanismi con cui agiscono gli psicotici. Per salvare i loro oggetti d’amore (i propri figli, la propria famiglia, la propria patria) dai propri desideri di distruzione, alienano questi desideri in un oggetto esterno e li vivono non come propri, ma come di quello. Nella guerra tutti i contendenti sono convinti di essere nel giusto e vedono gli altri come mostri minacciosi perché in loro proiettano la minaccia che essi stessi rivolgono alle cose che più amano; perché, cioè, nel nemico, proiettano la propria mostruosità. E la relazione di Franco Fornari ha rappresentato una svolta storica nel pensiero psicologico in questo campo. Ora egli si domanda: se gli uomini sono portati a difendersi dall’ambivalenza che è in loro esportandola all’esterno, se costruiscono il sociale a prezzo di avere un « altro » che costituisca il locus del loro odio inconscio verso ciò che amano, come faranno a salvare l’umanità? Se per salvare una cosa che amano hanno bisogno di un nemico, non li porterà questo meccanismo alla rovina?

Non resta, aggiungeva Fornari, che una rivoluzione olocratica, all’interno: occorre che gli uomini portino alla coscienza la loro ambivalenza e prendano su di sé le forze distruttive che si animano in loro.
L’umanità ha vissuto in un delirio per millenni; oggi il delirio si approssima alla realtà e si svela per quello che è; ma la presa di coscienza è così angosciosa che non si sa se gli uomini potranno sopportarla o non preferiranno invece restare nell’illusione e autodistruggersi.

In un recente scritto Giorgio Galli ha mostrato che la tesi di Fornari è criticabile in quanto gli uomini possono restare ammalati di un male antico, la guerra, mutandone la forma, rinunciando alla guerra termonucleare ma sostituendola con la guerriglia e vede nella guerriglia, non nella guerra atomica, la forma specifica di guerra del XX secolo. P una ipotesi importante questa di Galli ma, come egli stesso ammette, non è che una ipotesi. Se la trasformazione sociale continua incessante e nuovi problemi si accumulano, come la sovrappopolazione e l’aumento dei desideri, le forze che si liberano nella trasformazione possono assumere una dimensione tale da squilibrare a tal punto il sistema sociale globale, di cui è espressione il, sistema politico internazionale, che una guerra termonucleare può apparire, a taluni, come l’unica via d’uscita nel tentativo di « esportare » la violenza che tende ad autodistruggere la società. E la miccia può essere anche una « rivoluzione », qualcosa cioè di interno ad una società qualsiasi, in cui una classe oppressa trova insopportabile il suo stato e ripaga della violenza il suo oppressore in una guerra civile. Soltanto che, ad un certo punto, tutto ciò che è esterno ad un partito, ad una razza, ad una classe, ad una nazione, ad un impero, resterà pur sempre « interno » al sistema sociale generale che coincide con il pianeta.
Ed allora una tal scelta corrisponde al desiderio di « farla finita » una volta per tutte, costi quel che costi, come nel duello alla russa in cui ciascuno, a turno, si spara alla tempia un colpo da una pistola che ha un solo colpo nel tamburo. Solo che, se non c’è l’altro, il risultato del duello alla russa è già scontato: chi spara muore.
Il nostro secolo ha rivelato, nell’animo umano, strani meccanismi e, nelle società, forze demoniache un tempo sottovalutate. È cresciuta la nostra consapevolezza morale, ma siamo stati spesso travolti da fenomeni che chiamiamo irrazionali. La civilissima Germania ha generato il nazismo, la speranza messianica e liberatrice del marxismo il terrore staliniano; perfino oggi paesi poveri e affamati combattono guerre sanguinose per pochi chilometri quadrati di brulle montagne.

Ma non possiamo più limitarci a giudicare come irrazionali queste cose, dobbiamo comprenderle per dominarle. Vi sono, calati nella nostra psiche, dei meccanismi che non servono più. E perciò dobbiamo diffidare di noi stessi e cercare in noi, anche nelle nostre buone intenzioni, la trappola che vi si cela e cercare le modalità di un agire responsabile di tipo nuovo perché quello vecchio e spontaneo potrebbe provocare l’irreparabile catastrofe.

Questa è, io credo, la radice profonda della crisi delle ideologie del nostro tempo e la matrice di un rinnovato interesse per l’intimità, come della spinta che ha portato a esplorare le forze oscure dell’inconscio, a svelare, dietro l’apparente chiarezza, l’ambivalenza e la doppiezza dei nostri motivi. Le riflessioni della psicologia, della filosofia, della sociologia, dell’economia, del diritto, costituiscono uno sforzo disperato per capire e agire, « prima » che sia troppo tardi.
In questa epoca che anticipa il nuovo corso dei secoli si svelano le basi su cui poggiava l’antico. Marx vi ha scoperto lo sfruttamento e la oppressione, Durkheim la dipendenza vitale degli uomini dalla loro cultura, Freud il ruolo dei meccanismi inconsci e la presenza delle forze autodistruttive, l’autoinganno, la falsificazione sistematica dei motivi della nostra azione. Più recentemente si è svelata l’interdipendenza profonda del sociale e si è riscoperta l’unicità della natura umana, il suo fondamento etico e la necessità di un ordine planetario.

Ma se questo è il ruolo delle scienze sociali, anche i singoli uomini e i gruppi, nel loro agire concreto, vanno già probabilmente sviluppando nuove modalità di adeguarsi e di affrontare i problemi emergenti lungo direttive molteplici e diversissime l’una dall’altra, assi divergenti di socializzazione anticipatoria ad un futuro di cui sono alcuni, un giorno, daranno frutti. t come un semenzaio di nuovi virgulti culturali di cui solo alcuni potranno dimostrarsi adatti al mutato clima culturale del pianeta. Discernere oggi, in questo semenzaio di possibili, ciò che fruttificherà da ciò che potrà essere velenoso e destinato a morire o a far morire non è facile e non basta solo il buonsenso a guidarci.
Quanto finora si sa, dai punto di vista sociologico, sulle risposte delle civilizzazioni alle situazioni di « sfida », per dirla con Toynbee, porta a concludere che la risposta salvifica dell’umanità dovrà essere una risposta religiosa. La grande crisi, il cui punto catetico si avvicina, terminerà nel momento in cui una nuova civilizzazione sarà nata; e una nuova civilizzazione ha il suo cuore in una riscoperta religiosa del senso ultimo del suo destino. Contrariamente a quanto generalmente si crede e cioè che siamo in una fase di secolarizzazione crescente, io prevedo che, col precipitare degli accadimenti e la necessità della risposta, gli uomini non potranno non porsi le domande ultime sulla loro vita, rimettere in discussione, dalle fondamenta, il loro rapporto reciproco e col mondo, vale a dire porre i problemi in termini religiosi. L’intera civilizzazione del pianeta è sotto giudizio e da questo giudizio dipende l’aprirsi del nuovo ordine di secoli; sarà sempre più difficile difendersi con le menzogne o gli autoinganni collettivi, si avvicina il momento della verità, e solo la verità potrà salvare. Perciò l’appunta mento che questa civilizzazione ha con se stessa è, in realtà, un appuntamento con Dio.

Fonte: Francesco AlberoniVitaepensiero.it

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Francesco Alberoni (1930-2023) è stato un sociologo, noto come “sociologo dell’amore” per i suoi studi sull’innamoramento. Laureato in Medicina a Pavia, dove studiò anche psichiatria, con Carlo Berlucchi e Gildo Gastaldi, e statistica stocastica con Giulio Maccacaro, divenendo allievo di Sir Ronald Fisher. Studiò a Milano psicoanalisi con Franco Fornari, matematica e teoria dell’informazione con Guido Bortone, studiando inoltre con padre Agostino Gemelli. Studiò con Alfred McClung Lee mezzi di comunicazione di massa. Fece ricerche sul divismo, che descrisse come pettegolezzo collettivo in una società di massa e con mezzi di comunicazione di massa. È stato docente di psicologia presso l’Università Cattolica di Milano nel 1960 e poi docente di sociologia, sempre presso l’Ateneo, nel 1963, per divenire ordinario nel 1968. È stato poi Rettore dell’Università di Trento, professore di Sociologia all’Università di Catania, per poi passare nel 1978 all’Università Statale di Milano. Rettore dal 1997 al 2001 della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, da cui diede le dimissioni nel 2001.

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