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Caro Pietro Orlandi, il diritto alla verità non è diritto all’illazione

Pietro, l’orribile tragedia che ha colpito e segnato in modo indelebile la tua esistenza e quella della tua famiglia è diventata anche nostra. Emanuela Orlandi appartiene a tutti. Sarebbe davvero ora che la verità sulla sua scomparsa venisse a galla. Come quella sulle scomparse di Mirella Gregori, Angela Celentano, Denise Pipitone e di tanti altri che non hanno avuto – purtroppo – la stessa attenzione mediatica.

Una persona scomparsa non muore mai. Continua a vivere e a trafiggere il cuore di chi l’amava e dei suoi discendenti. Rimane per sempre un’ombra sulla storia del Paese. Ho seguito, da parroco di una povera periferia napoletana, tutte le novità che, di volta in volta, sembravano gettare uno spiraglio di luce sulla vicenda. Di volta in volta sono rimasto deluso dai risultati. Non sono un giurista, un malavitoso, un alto prelato vaticano. Sono un pastore, cui spetta il compito di sminuzzare, diluire, integrare le notizie che a tanta gente semplice della sua parrocchia – tra cui anziani, adolescenti, giovanissimi – arrivano in modo confuso e frammentario. Con il rischio di segnarne per sempre la fede.

La ricerca della verità è un diritto che appartiene a tutti. Alla verità sono disposto a sacrificare il mio stesso onore. La verità, però, come ben sai, ha mille nemici che portano nome di bugie, menzogne, calunnie, depistaggi, interessi economici, politici, mediatici, ideologie, odi. Nessuno è così ingenuo da non sapere che mentre tu, la tua famiglia, gli italiani, i giornalisti e i credenti onesti cercano la verità, altri, in maniera più o meno occulta, cavalcano l’onda per motivi decisamente ignobili.

Da 2.000 anni la Chiesa di Cristo si ritrova a combattere nemici esterni e interni. Ti scrivo per dirti che la notizia dell’apertura di un’indagine sul caso Orlandi da parte del Vaticano mi ha fatto gioire. Vogliamo la verità. Chi sa parli. Deve parlare. Ha il dovere di parlare. Il Vangelo non ci ha nascosto niente, nemmeno la vigliaccheria di san Pietro intimorito da una servetta. La Chiesa non è nostra, è di Dio.

Se anche uomini di Chiesa dovessero essere implicati nella scomparsa della cara Emanuela, è giusto che – virilmente! cristianamente! – si facciano avanti, confessino, chiedano perdono. A Dio, a Emanuela, a te, alla tua famiglia, alla Chiesa, all’Italia, all’umanità. E paghino per il loro spaventoso reato.

La gioia, però, ha lasciato presto spazio allo sconcerto. Di più, a una sofferenza quasi fisica. A una sorta di scoraggiamento e delusione. Emanuela mi è cara, la tua famiglia mi è cara, Giovanni Paolo II mi è caro. Il suo pontificato ha segnato la mia vita di uomo, di prete, di parroco. Lui è stato per me, e per milioni di persone, il faro che ha illuminato il nostro cammino. La stella polare cui guardare nelle notti buie. La sera della sua morte ho pianto come quando – adolescente – tornando a casa, qualcuno mi disse che la mia mamma era improvvisamente morta.

Io voglio la verità, qualsiasi essa sia. Le insinuazioni, no, non so che farmene. Mi ha fatto male sentirti dire di aver ascoltato che “Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi” aggiungendo, di tuo “che non andava certo a benedire le case”. Che uscisse di sera Giovanni Paolo II non mi meraviglia affatto. Che continui a farlo papa Francesco, ancora di meno. Il Papa non è prigioniero in Vaticano. Se, però, non sai dove andasse, devi tacere.

Il diritto alla verità non dà a nessuno – nemmeno a te – il diritto all’illazione ambigua, soprattutto quando tocchi un gigante dell’umanità, riconosciuto santo dalla Chiesa. La mia sofferenza, Pietro, non è paragonabile alla tua, ma sappi che le tue parole mi hanno fatto tanto male, e non solo a me. Non credo che questa fosse la tua intenzione. Un animo ferito come il tuo è capace di compassione, di pietà, di amore. In un animo lacerato il cinismo non trova casa.

Allora? Allora, Pietro, devi andarci piano con le parole senza fondamento. Sono macigni, che una volta lanciati, possono ferire a morte anche gli innocenti. E questo sarebbe un vero fallimento. Un’ulteriore e colossale ingiustizia. Un vero e proprio boomerang. La dichiarazione rlasciata a riguardo dal cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo emerito di Cracovia, già segretario di Giovanni Paolo II, gronda tristezza, amarezza, sconcerto, dolore. No, non ti sto chiedendo di tacere quello che sai. Anche su di te incombe, come su tutti, oltre al diritto, il dovere di parlare.

Ti chiedo, invece, in ginocchio, di pesare e misurare le parole. Sempre, ma soprattutto quando tocchi figure della Chiesa che hanno fatto della loro vita un dono a Dio e all’umanità. Emanuela è nostra. San Giovanni Paolo II è nostro. Abbiamo, come te, sete di verità. Perciò, Pietro, se sai dove andasse Giovanni Paolo II la sera, dillo. Apertamente. Chiaramente. Coraggiosamente. Se non lo sai, non hai nessun diritto di insinuare dubbi. Di ferirmi – e di ferirci – inutilmente e scandalosamente il cuore. Dio ti benedica, fratello carissimo.

Fonte: Maurizio PATRICIELLO | Avvenire.it

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