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Perché non basta “dire” pace di fronte all’aggressione dell’Ucraina

La guerra europea, com’è naturale, ci tocca più da vicino e ci coinvolge direttamente. Anche se la platea è a Est, sul territorio ucraino aggredito, l’Ovest non si sente al riparo perché capisce di non essere questa volta un semplice spettatore di un conflitto altrui, bensì un attore di riserva, che può essere chiamato in campo in qualsiasi momento. La prima reazione è lo stupore nel vedere come il nostro meccanismo di sicurezza attraverso le regole si sia rivelato debole e gracile, incapace di proteggerci: la guerra bypassa tutte le costruzioni umane di tutela reciproca e di salvaguardia comune e dichiara il loro fallimento istituzionale, politico e diplomatico, come scheletri vuoti delle speranze e delle ambizioni del Novecento.

La guerra ha dunque immediatamente campo libero e può dilagare senza antidoti, imponendo la regola della forza nella patria del diritto, e proponendo il bollettino dei morti e dei feriti nella terra dei diritti. La guerra azzera, capovolge e sovverte. Cosa ce ne facciamo di tutto il deposito di conoscenza, di esperienza e di competenza — il sapere europeo — che si è accumulato proprio qui, se non riusciamo a spenderlo per proteggerci nei momenti cruciali, e per rimanere fedeli ai nostri propositi? La tecnica e la scienza nel secolo scorso avevano perfezionato e accresciuto il potenziale bellico fino a portarlo alla soglia del disastro finale, la distruzione del Pianeta con la bomba atomica. Ma proprio perché senza via di scampo, l’arma totale aveva steso un velo di salvaguardia sui due mondi che si confrontavano sopra la pietra del muro di Berlino trasformando la paura in deterrenza, e soprattutto nella coscienza di un limite non valicabile per tutti, anche per la guerra, perché oltre c’è il nulla.

Oggi in Ucraina si sta provando a forzare l’ultimo limite, ad aggirarlo come se fosse possibile ignorarlo, a sfiorarlo e usarlo come minaccia, trasformandolo da tabù ad arma tattica. Qui sta il pericolo dell’incognita, del prossimo capitolo che ancora non conosciamo e in cui possiamo entrare all’improvviso. Perché la guerra ha una sua autonomia e una sua logica che non sempre si sottomettono alle regole della politica, mentre spesso divaricano addirittura gli esiti dalle intenzioni. Per questo facciamo bene ad aver paura: purché sia chiaro che non basta. Raramente il rifiuto della guerra è stato così generale, come dimostrano le manifestazioni per la pace. Occorre trasformare questo sentimento individuale in atto manifesto e consapevole, tradurlo in politica. Bisogna che le opinioni pubbliche diventino un soggetto attivo capace di giudicare, condizionare e indirizzare gli atti dei governi, e anche di contagiare la popolazione di quei Paesi come la Russia dove manca una vera espressione di cittadinanza libera, indipendente e autonoma, perché il potere ha incatenato ogni dissenso.

Ma per svolgere questo ruolo bisogna avere prima di tutto una coscienza avvertita e limpida di chi e che cosa si muove sul campo, con una precisa percezione di chi è vittima e chi è aggressore, e una distinzione indispensabile tra i torti e le ragioni, al di là delle vischiosità ideologiche dure a morire. Questo significa che invocare la pace è moralmente indispensabile, ma politicamente insufficiente. Tutti vogliamo la pace, naturalmente: ma ci sono precise ragioni se questa pace è stata violata e oggi facciamo i conti con la guerra. Non indagarle, non riconoscerle e non valutarle è venire meno a un dovere. Troppo spesso noi occidentali ci siamo salvati l’anima chiedendo la pace e lasciando i corpi altrui in balia di chi ha scelto la guerra, proprio perché non abbiamo compreso che serve qualcosa in più oltre allo slancio etico, al rifiuto della barbarie e alla testimonianza di fraternità. Perché l’unico modo che abbiamo per costruire la pace è rifiutare le ragioni del conflitto: andare oltre il rigetto della guerra in sé, entrare nel merito dello scontro, individuare le sue cause e le sue motivazioni e trarne un giudizio e una scelta di campo, con i comportamenti conseguenti. Solo quando ci assumiamo la responsabilità di un giudizio abbiamo fatto qualcosa per la pace, concretamente.

L’errore sta nel pensare che la radicalità del “no alla guerra” e del “sì alla pace” assorba ogni altra espressione politica e qualsiasi ulteriore manifestazione di pensiero: mentre invece viene prima, è una precondizione morale, che obbliga ad andare avanti, fino al giudizio e alle sue conseguenze. È l’onere di una valutazione che ci porta in campo, trasforma il richiamo alla pace da invocazione a scelta politica, perché denuncia certe azioni e certe motivazioni come colpevoli, strumento di guerra, ostacolo per la libertà della convivenza. Per questo la “neutralità attiva” di fronte all’evidenza dell’aggressione di Putin all’Ucraina è una formula non soltanto sterile ma ingannevole, dunque sbagliata. Mai come questa volta la guerra rivela tutto di se stessa, motivazioni, obiettivi e mandanti, tanto che l’aggressione ha bisogno di una riscrittura della storia per giustificare le sue scelte, incompatibili con le regole che fin qui hanno garantito il fragile ordine mondiale.

Come si può rifugiarsi nella neutralità di fronte a quel che stiamo vedendo e a ciò che sappiamo? E come si può, nel rifugio ideologico di quella neutralità, essere “attivi” per arginare il conflitto, se non si è nemmeno in grado di giudicarlo? Anche la solidarietà agli aggrediti diventa generica e disincarnata, in nome di un indistinto no alla guerra, non di un no a “questa” guerra, cioè alle sue cause specifiche, dunque alla responsabilità di chi l’ha decisa. Senza quel giudizio, non sappiamo cos’è giusto e cos’è sbagliato, se inviare armi agli ucraini o solo aiuti umanitari, dimenticando quel che il primo dissidente nella storia dell’Urss, Julij Daniel, scriveva negli anni Sessanta al figlio dal lager: «Ricordati che la solidarietà può essere soltanto incondizionata».

Il giudizio, poi, cammina e rivela. Quando cantiamo in corteo Bella ciao noi rinnoviamo l’impegno per la libertà e per la democrazia. Quando soppesiamo torti e ragioni delle parti in conflitto, noi dalle azioni passiamo ai valori o disvalori che le ispirano, e dunque valutiamo la natura non solo politica, ma morale e ideale dei contendenti. È su questo che ci schieriamo, prendendo parte. Perché giudicando i valori degli altri noi li confrontiamo con i nostri, di cui acquistiamo finalmente coscienza. Scopriamo davanti alla guerra chi siamo, i nostri principi e le nostre infedeltà: ma anche le ragioni di questa Europa dell’Ovest che tra tanti errori e inadempienze continua comunque a credere nella democrazia, nel diritto e nei diritti. E arrivati fin qui ci rendiamo conto che esattamente questa è la vera posta in gioco della guerra in corso. Rifiutando di vederla noi rimettiamo in cammino l’eterno fantasma d’Europa: il quinto Procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato

Fonte: Ezio MAURO | LaRepubblica.it

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