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DENTRO IL COVID/ Il tempo della (nostra) morte è anche quello del miracolo

La pandemia, mostrando l’insostenibilità di un modello umano senza più trascendenza, ha reso più semplice (ri)cercare Dio

Non si è mai veramente pronti per morire. La resistenza personale alla morte è talmente insita nella natura umana, che Charles Péguy, riflettendo sulla passione di Cristo, spiegava che fu proprio una tale resistenza a confermare in modo estremo la natura carnale e non solo divina di Gesù (“C’è un abisso tra sapere la propria morte e passarci, tra il conoscere la morte e la morte”. E così, “quando tutto era pronto, quando anche lui era pronto, il suo corpo si è ribellato, il suo corpo è insorto davanti alla morte […] Non sarebbe stato affatto davvero uomo, uomo fino in fondo, se avesse ignorato, non provato, rifiutato di provare il più grande terrore dell’uomo, la più grande miseria dell’uomo”).

Ma questa resistenza non è esclusiva di alcune patologie o fasi storiche di pandemia. Sono altre le specificità sociali e personali derivanti dal Covid; una patologia, in ogni caso, che toglie ogni tregua al corpo e anche alla coscienza, che nella sua fase più feroce nega gli ultimi abbracci, lascia che l’implosione dei polmoni bruci ogni possibilità di incontro, consolazione e carezze finali. Nemmeno è solo una questione di paura sociale rispetto ai timori del contagio e delle conseguenze di una povertà sempre più prossima, diffusa e stringente; una paura reale e certamente comprensibile, puntualmente sperimentata anche nel corso delle altre pandemie: speranze tradite, lacrime, isolamento, buio, smarrimento collettivo, miseria.

Sono altre, insomma, le specificità sociali e personali che segnano l’attuale pandemia. Questa ha assunto la dimensione di un fenomeno di morte talmente globalizzato e di massa, da fare emergere non solo l’insostenibilità delle precedenti contraddizioni, ma soprattutto la sorprendente praticabilità di alcune vie di fuga.

La pandemia in corso si è infranta su un mondo che aveva rivendicato l’autosufficienza dei propri modelli di sviluppo e la certezza dell’invincibilità del progresso scientifico; un mondo che aveva fatto strame delle ragioni dell’umana convivenza e che faticava a rendere ancora praticabili quei presupposti di solidarietà, pur sempre essenziali a mantenere inalterata la tenuta del sistema. E infatti, posto che la virtù non si può imporre per legge, su quali strumenti avrebbero potuto confidare gli Stati per garantire legalmente il successo dei vincoli democratici derivanti dalla solidarietà? Una volta dissolte culturalmente le motivazioni dei credenti e dei laici poste a base dello “stare insieme”, una volta affinate le pretese di una secolarizzazione sempre più cieca e distruttrice, in base a quali strumenti gli Stati avrebbero potuto riaffermare i propri riferimenti etici originari? In che modo avrebbero potuto provvedere all’opera di necessaria mediazione fra il pluralismo dei valori? Di qui, per l’appunto, la fatica della praticabilità di un senso di appartenenza comune, di un riconoscimento reciproco fra le tante parti della popolazione segnate da una diseguaglianza sempre più lacerante.

È rispetto a un tale contesto che sono emerse le specificità dell’attuale pandemia, che “l’abisso” di cui parlava Péguy “fra il sapere la propria morte e il passarci” ha assunto una caratterizzazione sociale e personale storicamente inedita, facendo emergere l’insostenibilità delle precedenti contraddizioni. Resterà indelebile nella memoria dei telespettatori di tutto il mondo la serata di venerdì 27 marzo 2020, con le immagini di Papa Francesco che solo, di fronte a una Piazza San Pietro deserta e battuta dalla pioggia, prega Dio per tutta l’umanità. In un silenzio circostante surreale, risuonano ancora quelle parole sul senso di paura e smarrimento del mondo, ma anche sulle novità prima impensabili: “Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca […] ci siamo tutti”. Ed è così!

Sul piano sociale la pandemia ha imposto la considerazione pubblica che, a dispetto delle diseguaglianze in atto, “su questa barca” ci siamo realmente tutti. E anzi, ha evidenziato che senza una solidarietà libera, prima ancora che imposta dalla legge, non è possibile andare avanti; senza quel “di più” spontaneo ed eroico che soltanto la gratuità umana è capace di generare e assicurare, la tenuta della società e la salvezza dei singoli sarebbero affidate alla mera ottemperanza delle prescrizioni legali. Troppo poco per reggere l’immenso carico di sofferenza in atto! Il riferimento non è solo alla diffusione di un uso della mascherina che svela un “senso dell’altro” prima impensabile, sia pure per prevenire la minaccia dell’altrui contagio; è altresì al “di più” che le cure del Covid richiedono rispetto alle ordinarie necessità sanitarie.

Si arriva così al punto cruciale e certamente inatteso dell’attuale fase storica, che proprio l’esperienza della resistenza di massa alla morte ha fatto emergere: l’eroicità del personale medico e infermieristico coinvolto nella cura ospedaliera. Io ho visto e sperimentato il coraggio e la competenza dei medici e infermieri ad assistere i contagiati nonostante i conseguenti rischi personali e familiari; notti come il giorno continuamente fra malati, lamenti e grida; integralmente coperti da tute ermetiche difficili da sopportare, eppure costantemente portatori di parole e sorrisi d’incoraggiamento sicuramente non prescritti dalla legge, ma essenziali per la guarigione.

Sul piano personale la pandemia è stata rivelatrice di un’altra novità: ha liberato tanti dalla congerie di manipolazioni e sovrastrutture ideologiche e consumistiche che il mondo precedente aveva imposto. Una volta divenuta evidente l’insostenibilità di un modello umano senza più trascendenza, è divenuto più semplice (ri)cercare Dio. Vengono in mente alcune parole pronunciate da don Giussani negli ultimi anni del 900: “Noi siamo in un tale degrado universale che non esiste più niente di ricettivo del cristianesimo se non la bruta realtà creaturale. Perciò è il momento degli inizi del cristianesimo, è il momento in cui il cristianesimo sorge, è il momento della resurrezione del cristianesimo. E la resurrezione del cristianesimo ha un grande unico strumento. Che cosa? Il miracolo. È il tempo del miracolo. Bisogna dire alla gente di invocare i santi perché sono stati fatti per questo”.

Ecco, la pandemia non ha reso solamente praticabile la solidarietà gratuita; ha reso immediato e percorribile il tempo del miracolo. E questo è tutto.

Fonte: Vincenzo Tondi della Mura | IlSussidiario.net

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