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Alessandro D’AVENIA – 43. La manutenzione dell’amore

 

Alcune famiglie al completo, nonni compresi, sono sedute ciascuna attorno a una bella tavola natalizia. Una voce fuori campo pone delle domande ai singoli componenti. Chi risponde correttamente rimane, se sbaglia esce dal gioco. Quale famiglia vincerà? I primi giri di domande, mirate sull’età e gli interessi di ciascuno, vedono trionfare tutti: come si chiama l’eroe di Game of Thrones? Dove sono andati in vacanza Ferragni e Fedez per Natale? Quanti goal ha segnato Ronaldo in questo campionato? Dove si sposerà Lady Gaga? Ma a un tratto le domande cambiano. Quale è il gruppo preferito di tuo figlio? Dove si sono conosciuti papà e mamma? Dove sono andati in viaggio di nozze? Dove lavora la mamma? Di che cosa si occupa esattamente papà? Che cosa faceva il nonno prima della pensione? Qual è la canzone preferita di tua figlia? Il libro preferito di tua sorella? Il sogno di tuo fratello? Perché papà e mamma ti hanno chiamato così? A queste domande, apparentemente più semplici, i componenti della famiglia danno risposte sbagliate o non sanno rispondere. I tavoli si svuotano. Ho rielaborato una pubblicità che mostra, amaramente, che sappiamo tutto di persone lontane e niente di chi ci sta accanto. Preferiamo le infinite e immaginarie emozioni delle relazioni virtuali alla gioia faticosa di quelle reali. Perché passiamo, in media, 24 ore a settimana con il telefono in mano e gli occhi sullo schermo e non abbiamo il tempo per parlare faccia a faccia o mano nella mano?

La maggior parte delle lettere che ricevo dai ragazzi riguardano sofferenze nascoste, da casi gravi (anoressia, bulimia, dipendenze, autolesionismo) a più ordinarie, ma non meno dolorose, solitudini. I ragazzi si confidano con uno sconosciuto e io, non conoscendo le loro storie e situazioni reali, dico loro che la prima cosa da fare è parlare con i genitori o altri adulti di riferimento, ma spesso mi sento rispondere: non capirebbero, rimarrebbero delusi, non hanno tempo, mi hanno detto di non dare peso alla cosa, passerà… Ecco una delle ultime lettere ricevute: «Ho 18 anni e mi sento vuota. Scrivo, sperando che qualcuno legga l’email confusa, scritta tra lacrime salate, di una ragazza che non ne può più. Ti scrivo la sera della vigilia di Natale perché è l’ennesima vigilia che nasce piena di buoni propositi e speranze che poi vengono spezzati dai miei. Mi capita di pensare di scappare via e lasciarli con una frase: “Avete rotto un legame: adesso è andato via, irrecuperabile”. Non so come affrontare la situazione e con chi parlarne. Potrai dire che ci sono i professori: per me sono degli estranei, pronti a svalutarmi. Potrai dire che ci sono gli zii e i nonni, ma è anche a causa loro che alla vigilia di Natale mi trovo dietro allo schermo, scrivendo e sperando che la persona a cui chiedo aiuto mi legga. Potrai continuare a replicare che ho un mondo di persone con cui potrei parlare ma quelle persone non mi stanno realmente a sentire e tutte le volte che ho provato sono stata descritta come problematica, disagiata, insomma da curare. Non so più in cosa credere. Non so il significato reale di donarsi, quali siano i veri valori da seguire, cosa voglia veramente dire Natale. Non so cosa si prova a ricevere una carezza di qualcuno importante. Recentemente in una discoteca mi stavo per avvicinare al bancone per una birra, quando un ragazzo sconosciuto mi ha messo la mano sulla spalla e mi sono sentita “presente” ma, l’attimo dopo, allontanandomi da lui, mi sono resa conto che in quel tocco c’era una solitudine immensa e che non si sa realmente quale sia il significato di amore. Mi sono resa conto che la discoteca è un bordello per chi non vuole sentirsi solo il mattino dopo, al risveglio. Mi sono resa conto che non sono l’unica a essere ignorante delle basi della vita e non so a che cosa sia dovuto». Parole scritte a uno sconosciuto, la vigilia di Natale, da una tastiera. La lettera si apre con un «mi sento vuota» (ricerca di pienezza) per approdare, con perfetta coerenza, alla domanda: quali sono le basi della vita e perché non le ho ricevute (ricerca di senso)? La «pienezza di senso» è ciò che spesso manca a questi ragazzi e molto dipende dalla qualità delle relazioni principali.

Tempo fa lessi un libro, molto pragmatico e semplice, di Gary Chapman, un consulente familiare: «I cinque linguaggi dell’amore». L’autore spiega che ciascuno di noi impara a riempire il proprio «serbatoio dell’amore» da bambino, sulla base dei cinque possibili modi in cui l’amore viene trasmesso nelle relazioni. Li usiamo tutti e cinque, ma ognuno ha la sua classifica e dà amore nel linguaggio con cui lo ha ricevuto, sicuro che anche l’altro parli lo stesso, ma non è così. Spesso una relazione (di coppia, d’amicizia, educativa…) non cresce perché le persone non usano l’uno il linguaggio dominante dell’altro: ciascuno fa il suo discorso amoroso che, per quanto sincero, l’altro non riesce a recepire, perché è sintonizzato su un’altra stazione. Tante relazioni si rovinano, benché ci sia impegno, semplicemente perché non si parla la lingua altrui, convinti che la propria sia l’unica. Ecco i cinque linguaggi. 1) Parole di incoraggiamento: tutta l’area delle parole di conforto e rassicurazione («figlio mio, sono fiero di te», «figlia mia, se potessi scegliere tra tutti i ragazzi del mondo sceglierei te», «sei una moglie eccezionale», «caro, hai fatto un lavoro perfetto»…). 2) Momenti speciali: vicinanza e ascolto esclusivi (eliminando ogni distrazione: cellulare, tv, giornale…), insomma dialogo con contatto visivo costante, senza interrompere, osservando il linguaggio del corpo altrui, chiedendo chiarimenti e il permesso per dire la propria opinione. 3) Doni: non grandi regali ma piccole cose e gesti frequenti e sentiti, cioè personalizzati (un biglietto affettuoso, un fiore inaspettato, un piatto speciale, una canzone azzeccata…). 4) Gesti di servizio: partecipare ai lavori di casa e non, gratuitamente, facendoli insieme (dalla lavatrice ai piatti, dal mettere i panni sporchi nella cesta a sparecchiare la tavola, dalla spazzatura alla spesa…). 5) Contatto fisico: gesti affettuosi, da una carezza data senza motivo a un abbraccio quando si rientra a casa, da un bacio sugli occhi stanchi la sera a uno sulle labbra uscendo di casa, dal prendersi per mano in pubblico al saper ascoltare il corpo dell’altro nell’intimità amorosa. Chiaramente ogni linguaggio va adattato al tipo di relazione e all’età delle persone: saper amare in fondo è imparare ad usare tutti i linguaggi con naturalezza.

Avendo ognuno di noi uno o due linguaggi privilegiati, se non conosciamo quelli delle persone vicine, anche se le «amiamo», non riusciremo a farle «sentire amate». Anzi magari ci colpevolizzeremo se non rispondono, ma stiamo semplicemente parlando lingue diverse. Se l’amata preferisce il «tempo di qualità» un uomo non può cercare sempre e solo il «contatto fisico». Se un figlio ha bisogno di «parole di incoraggiamento» non serve sbrigarsela facendogli «doni». Sono esempi generici: occorre osservare, chiedere, provare, e poi stilare la graduatoria dei cinque linguaggi, propria e di ciascuno, per impegnarsi a usare quello adatto a riempire il serbatoio dell’amore altrui, uscendo dal proprio modo di amare e imparando anche gli altri: questo fa maturare sé e la relazione. Ho alunni a cui serve una mano sulla spalla, altri a cui fa bene un «sono fiero di te», ad altri devo regalare un libro e ad altri ancora offrire un caffè a tu per tu. Ognuno può ricevere amore solo nella lingua in cui riesce a comprenderlo: la porta delle persone si apre solo con la chiave adatta alla loro storia, non esiste il passepartout. E la persona, nella sua unicità, emerge e si consolida solo quando si sente dare del tu dall’amore.

Quando i miei genitori hanno festeggiato un importante anniversario di matrimonio, noi figli abbiamo recuperato, da una scatola che ritenevano ben nascosta, le loro lettere. Le abbiamo rilegate in ordine cronologico in un libro che abbiamo regalato loro. Noi figli non le abbiamo lette (o quasi…), per rispetto della loro intimità, ma quelle righe, scritte a mano con cura e trepidazione, erano la futura storia di ciascuno di noi. Non sarà possibile farlo con le mail e i messaggi whatsapp, a meno che non decidiamo di prendere carta e penna. Avete mai scritto una lettera (magari a mano) a vostro figlio, ai vostri genitori? Io lo consiglio sempre a chi non riesce a confidarsi faccia a faccia. Una mail dopo un po’ non si rilegge e non si conserva, al contrario di una lettera scritta a mano. Queste sono «le basi della vita» e richiedono una calma creativa. In questo nostro tempo, troppo veloce e ingolfato, forse proprio per zittire l’urlo del cuore vuoto, così come per pensare bisogna fermarsi a pensare, per amare bisogna fermarsi ad amare.

Il letto da rifare è trovare il tempo, un poco ogni giorno, per immaginare, e poi realizzare, un gesto quotidiano per ogni relazione fondamentale, in base al linguaggio dell’amore principalmente usato dall’altro. La manu-tenzione dell’amore si fa con gli strumenti giusti, e così l’amore cresce, altrimenti, pur con tutte le buone intenzioni, l’improvvisazione e la routine ne diventano la fatale mano-missione.

Fonte:  Corriere.it

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