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Perché quest’estate farò ai miei figli il dono della noia

 

Se noi genitori smettessimo di essere così impegnati, cosa potremmo imparare sui nostri figli e su noi stessi?

È controproducente. Non è un bene per il nostro cervello, e sicuramente non è un bene per quello dei nostri figli. Emma Seppala, autrice di The Happiness Track (La via della felicità), ha scritto di recente un articolo su Quartz spiegando che l’ostacolo maggiore per la creatività è il fatto di essere troppo impegnati. Da Tesla a Einstein, rifersce le grandi svolte scientifiche ispirate direttamente da momenti di ozio – lunghe passeggiate, sogni ad occhi aperti, ascoltare Mozart… Sapete, le cose che considereremmo “pigre”.

La Seppala si riferisce a un articolo sulla Annual Review of Psychology che spiega come sognare ad occhi aperti e permettere alla mente di vagare aiuti le persone ad apprendere un compito esigente meglio di chi non dà prima alla propria mente la possibilità di rilassarsi. Il tutto alla faccia della nostra idea moderna di efficienza e produttività.

La nostra malattia per l’essere sempre impegnati sta probabilmente inibendo molto più della creatività. Ho imparato ad amare la lettura durante le lunghe e vuote giornate estive. Alla fine dell’estate divoravo libri. Da quel giorno, se avevo un libro tra le mani non mi annoiavo mai.

Non avrei mai potuto imparare ad amare la lettura quanto la amo se avessi dovuto limitarmi a 30 minuti al giorno o se le mie giornate fossero state piene di attività pianificate. Ho preso in mano un libro solo perché mi annoiavo terribilmente.

E se facessi ai miei figli il dono della noia? Quali cose nuove potrebbero provare, e quali imparerebbero ad amare?

E io? Se snellissi un po’ il mio programma e mi permettessi di godere delle lunghe giornate estive anziché cercare dei modi per superarle, cosa imparerei sui miei figli? O su di me? Che tipo di famiglia sarebbe la mia alla fine di quest’estate se smettessimo di essere così impegnati?

Non lo so. Ma lo scoprirò.

La notte scorsa mi sono seduta per terra nel mio guardaroba e mi sono messa a piangere. Mio marito non ha avuto bisogno di chiedermi il motivo – lo sapeva. Sono sopraffatta. Ci sono troppe cose da fare, troppe cose a cui pensare, siamo troppo impegnati. La vita ci sta schiacciando.

Lui ha cercato dei modi per illuminare la strada, ma alla fine è stato qualcun altro a togliermi un peso che non avrei mai dovuto assumermi. L’ho assunto solo perché i miei figli potessero avere più cose da fare quest’estate – più attività, più posti da visitare. Di modo che sarebbero stati impegnati e non si sarebbero annoiati.

Ho pensato molto a un post di Omid Safi, The Disease of Being Busy (La malattia di essere impegnati), in cui lamenta la natura troppo schematizzata e iperstimolata della nostra vita, scrivendo con nostalgia di un’epoca in cui avevamo conversazioni lente e piacevoli.

La malattia di essere impegnati (e chiamiamolo con il suo nome, il disagio di essere impegnati, perché non ci sentiamo mai a nostro agio) è spiritualmente distruttiva per la nostra salute e il nostro benessere. Fiacca la nostra capacità di essere pienamente presenti con le persone che amiamo di più nella nostra famiglia e ci impedisce di formare il tipo di comunità che a cui aneliamo disperatamente”, sostiene Safi.

Concordo al 100%. Tutte queste cose da fare, tutti i compiti, le attività e i dispositivi sono distruttivi. Sì, stanno distruggendo le mie amicizie e minando la mia vita familiare. Ma perché mi sento tanto in colpa all’idea di liberarmi di tutto questo? Perché sento che un’estate senza alcuna attività, senza lezioni o campi, sia un disservizio nei confronti dei miei figli?

In parte è una questione di puro senso di colpa. Tutti i loro amici partecipano a questo o a quel campo, prendono lezioni di questo o quello, vanno in questo o in quell’altro posto per le vacanze, e allora loro vogliono le stesse cose.

È naturale che i bambini vogliano quello che hanno i loro amici, ed è naturale che i genitori si sentano in colpa se non possono fornirglielo.

Ma l’altra faccia è la pressione della nostra società ad essere sempre impegnati. Pensiamo che programmi pieni significhino produttività, e una vita impegnata viene considerata felice e di successo. Assegniamo momenti specifici e sempre più ridotti al riposo e al relax, e perfino allora consultiamo sempre il cellulare, controllando Facebook e e-mail.

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