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BENEDETTO Il respiro del millennio

È ancora presto per fare un pieno bilancio sull’azione di un pontefice che si colloca fra vecchio e nuovo, in un severo momento di crisi per l’economia mondiale, per i rapporti con l’islam e per la Chiesa: le sue scelte e decisioni aprono un percorso di cui non si può ancora vedere il compimento.
Come valutare il pontificato benedettino? Appare rivelatrice la risposta di Benedetto XVI a una domanda di Peter Seewald. L’intervistatore chiedeva: «Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?». Il papa rispose: «Entrambi». Domanda e risposta azzeccate. Il suo pontificato non è incasellabile in definizioni rigide. Un pontificato non può essere solo letto alla luce delle dinamiche cattoliche e più ampiamente religiose.

Va ulteriormente contestualizzato. Gli anni di Benedetto XVI seguono l’11 settembre 2001, che ha aperto per il mondo occidentale una stagione di precarietà, dipendente da un senso di insicurezza legato agli attentanti che avvengono a New York, come a Madrid e altrove. Inoltre durante il pontificato accade la grande crisi economica e finanziaria internazionale del 2008, che crea ulteriore precarietà, questa volta sociale. Il mondo, particolarmente quello occidentale, vive un senso di instabilità permanente, a cui non era più abituato da decenni. D’altra parte in questo contesto polarizzante, in cui le frizioni politiche internazionali assumono pure il volto del religioso, il cattolicesimo, nel suo vertice romano, si incarica di delegittimare religiosamente ogni conflitto armato e di proporre il dialogo interreligioso quale via culturale e politica verso la pace.

Se per la crisi del 2008 si ha un’enciclica ( Caritas in veritate), che indica una via sociale cattolica, per il terrorismo internazionale di identità religiosa (musulmana o altra) il cattolicesimo ripropone come strumento la persuasione fondata sul dialogo ragionevole. Può apparire una debolezza, perché l’uso della ragione è assai fragile dinanzi alla ragione della forza. Ma il cattolicesimo vi è abituato da tempo. Un elemento caratterizzante del pontificato è stato quello dell’apertura intellettuale e l’incontro con gli esponenti di altre tradizioni culturali e religiose.

Tale attitudine ha permesso diversi riposizionamenti culturali degli interlocutori, fino ad allora impensabili, nel contesto dell’emergenza antropologica e della violenza religiosa. Bisognerà vedere se tale nuovo percorso dei rapporti tra Chiesa e mondo continuerà a essere incoraggiato o almeno alimentato nel lungo periodo, così da non ridurlo a un raggio di sole in inverno. Nei fatti questo dialogo risponde anche a una preoccupazione laica presente in più osservatori, cioè «se una civiltà possa sopravvivere senza una grande religione che la sostenga e le dia anima ». Ma la motivazione papale del dialogo va ben oltre, è una preoccupazione innanzitutto pastorale: far conoscere Cristo. È preoccupazione di fede. Benedetto XVI non è un politico e questa è la debolezza del suo pontificato. Nelle decisioni del suo pontificato non si è preoccupato di trovare il consenso e implementarlo, ma si è solo posto la domanda sul giusto, il vero e il buono, fornendo la propria risposta.

Da intellettuale e professore del suo calibro, nonostante il cardinalato e poi il Papato, è sempre rimasto sé stesso. Questa libertà interiore di fondo gli ha permesso di rinunciare al ministero petrino attivo. Le riforme benedettine non consistono unicamente nei provvedimenti riguardanti la liturgia, le norme del Codice di diritto canonico e le strutture degli ordinariati. La riforma attuata da Benedetto XVI riguarda propriamente un modo di pensare, di sentire la Chiesa e la Chiesa nel suo contesto sociale e culturale. Il dialogo identitario attuato spinge il cattolicesimo stesso e i suoi interlocutori al nocciolo delle questioni, al di là dei «buoni sentimenti» (ma mai contro di essi).  Ha avviato molti processi.

In questo senso il suo pontificato appare come un fiume carsico, di cui si sa dove inizia il percorso, ma non dove andrà a sfociare. Ci vorrà ancora tempo per comprendere e comprendere bene. Ma alla fine, quello di Benedetto XVI è stato un pontificato di successo o di fallimento? La domanda mi è stata posta dal regista Christoph Röhl mentre chiudevo queste pagine. Essa mi è sembrata prematura. Forse anche forzata, perché andrebbe capita nei suoi termini. Cosa significa «successo» o «fallimento» per un pontificato? Devono prevalere i criteri di valutazione ecclesiali, politici, pastorali, teologici o culturali? […] Il successo e il fallimento di un pontificato non si misurano nei tempi brevi, ma in quelli lunghi. Quello che conta è se le acquisizioni di quel pontificato e i processi da esso avviati trovano conferma nel tempo.

Essendo il Papato benedettino concentrato sugli snodi culturali e antropologici del terzo millennio, come sui punti più sensibili della fede della Chiesa e delle sue forme nella storia, tutto spinge a ritenere che per una sua valutazione ci vorrà tempo. Forse addirittura più tempo rispetto ad altri pontificati, perché il nocciolo della politica papale ha riguardato temi che con ogni probabilità continueranno ad animare nei prossimi anni il grande dibattito, dentro e fuori della Chiesa. Successo o fallimento, dunque? Ora è il tempo dell’attesa paziente, oltre il «recinto » del Vaticano, oltre la crisi della Chiesa.

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