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I RAGAZZI CATTIVI DI WHATSAPP – Una riflessione per noi genitori

POVERI ragazzini di San Francesco al Campo (Torino), se è vero che i loro genitori li hanno difesi da una punizione scolastica meritata, addirittura ovvia. Riprendevano con il telefonino i loro insegnanti durante le ore di lezione, per poi deriderli su WhatsApp.

NIENTE di inedito o di gravissimo: la presa in giro degli adulti, a quell’età (dodici/ tredici anni) è una pratica vecchia come il mondo. Magari, in precedenza, a corto raggio e a uso interno, disegnini, caricature, appunti beffardi; non con la smisurata moltiplicazione che la tecnologia oggi consente (la presa per i fondelli nell’epoca della sua riproducibilità tecnica…), condannando il discolo a una visibilità micidiale. Si nascondeva sotto il banco ciò che oggi si ostenta in rete.
Altrettanto fisiologica, però, la punizione: gli adulti difendono la regola — elementare — secondo la quale esiste uno spazio per il gioco e uno per la serietà. La scuola, almeno durante le ore di lezione, è lo spazio della serietà per eccellenza. Oltre a essere il luogo dove, tra le altre cose, si impara a rispettare il principio di autorità, tanto più prezioso quanto più disatteso in famiglia.
Che padri e madri, invece di dire ai ragazzini «punizione meritata, non farne una tragedia e anzi considerala un prezioso insegnamento», prendano le loro difese, è pratica ormai diffusissima, pluridenunciata da docenti esasperati, stanchi di vedersi contrastati o assillati da genitori iperprotettivi, spesso aggressivi, incapaci di accettare che i loro figli si imbattano (come prima o poi dovrà pure capitare) nelle contrarietà della vita sociale, nella fatica del portarsi bene e del non portarsi male. E addirittura nella punizione o nel brutto voto: concettualmente inaccettabili in una società sempre più incline all’autogiustificazione, sempre più terrorizzata dal peso di una qualunque responsabilità personale.
Quanto male infligga, ai ragazzi, l’equivoca complicità di padri e madri (è familismo amorale anche questo), non è calcolabile. Ma è bene ricordare che “protezione”, in sé concetto nobile, è un termine che contiene anche una deriva malavitosa (il “protettore” di strada; la “protezione” della mafia). Ed è indubbio che sapere che “il mondo” punisce e la famiglia assolve, specie in un paese come il nostro, non è solamente diseducativo in senso lato; lo è nella specifica catastrofe di un popolo che nella costruzione “ad familiam” più che ad personam delle convenzioni sociali, dei codici di comportamento, delle convenienze, dei rapporti di potere, ha costruito gran parte del proprio svantaggio, ovvero della propria troppo faticosa, troppo lenta civilizzazione politica.
A margine di questo problema, che è enorme e non riguarda solamente la scuola, ci si chiede se esista nelle scuole una regola (se non un indirizzo di legge, almeno una circolare) che imponga agli studenti e ai professori, dentro quelle aule sedicenti autorevoli, di tenere spente le macchinette interconnesse, così da non cadere nella tentazione di immortalare la prof mentre starnutisce; tenerle spente almeno nel tempo dedicato alla lezione, al “qui e ora” della parola, alla capacità di concentrazione o a quello che ne resta. Voci frequenti (di insegnanti) riferiscono che sono i genitori, specie le mamme in ansia, a volere che la loro prole sia sempre e ovunque raggiungibile, magari per un sms nel quale si domanda se la pasta o gli gnocchi siano in cima alla hit parade degli appetiti. È la famigerata tracciabilità delle cose inutili. Perché l’infernale macchina del mammismo è, almeno qui da noi, ben più perniciosa del peggiore dei multitasking.
A quei genitori torinesi, confidando che possano essere recuperati al ragionamento, bisognerebbe comunque raccontare che nelle scuole (di eccellenza) dove studia la upper class americana (compresi i figli dei dirigenti di Apple e di Google), l’uso ludico e/o personale degli strumenti elettronici, all’interno della scuola, è vietatissimo. Stravietato. E l’abuso dei gingilli costruiti dai genitori è malvisto, perché si diventa adulti e forti nell’indipendenza, e si rimane bimbi e deboli nella dipendenza. Chissà che almeno l’invidia sociale (voglio che mio figlio diventi come i figli di Steve Jobs!) non funzioni da stimolo.
Fonte: Michele Serra per Repubblica.itpa
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