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Cosa ci dice di noi la smania di condividere foto e video sui social?

Prima di calare la scure della condanna morale e del “dove andremo a finire”, fermiamoci ad osservare questo fenomeno che riguarda tutti noi: l’uso dei social e la condivisione spesso eccessiva di foto della nostra vita di tutti i giorni, figli compresi, ci dicono qualcosa di come pensiamo a noi, agli altri e al valore dell’esistenza.

Vivere è diventato rivivere per altri. In questa reduplicazione la vita sembra perdere valore di per se stessa a vantaggio della sua ripetizione. È come se fossimo presi sempre più da una spinta a diventare noi stessi, figli compresi, merci, oggetti, immagini, video. (BenEssere, maggio 2018)

E’ con questa riflessione che mi è parsa particolare e inedita perché si smarca dall’immediata condanna morale che impedisce un giudizio più profondo, che inizia un articolo tratto dalla rivista BenEssere di quasi un anno fa. Ma la tendenza allo share selvaggio sui social e particolarmente di contenuti video e foto non è mutata affatto da allora, se non in crescendo; per questo può essere interessante riproporla.

Lo spunto è la domanda di un lettore, un papà, che dall’alto della sua generazione considera sconsolato la pandemica abitudine a condividere foto di tutti e per ogni occasione. Senza filtro (se non di quelli che abbelliscono magari) e senza rispetto per la riservatezza che dovremmo alla vita dei nostri figli, soprattutto quando sono piccoli e in tutto dipendenti dall’adulto. Il confronto con i suoi ricordi di bambino non è solo nostalgia.

Mi ricordo le foto che facevano i nostri genitori di noi bambini: venivano selezionate e appiccicate sull’album, soltanto quelle belle. Ce li ho ancora quegli album, ciascuno con su scritta la mia età e i luoghi che frequentavamo. Oggi mi sembra di vivere in un altro mondo. Al posto degli album, c’è Facebook. Come scattiamo una foto col cellulare è un attimo che subito circola… per chi sono queste foto? Che cosa ne  diranno i nostri figli una volta cresciuti? È la loro memoria che stiamo rendendo pubblica.

Il papà di ViolaŽ

Bambini e social

Non si tratta “solo” di proteggerli da rischi seri come il conclamato pericolo che le loro innocenti immagini vengano pubblicate su siti pedopornografici, che già dovrebbe bastare a scoraggiarci in tutti i modi. Si tratta di qualcosa di più profondo e radicale. Forse lo scopriamo rispondendo alla domanda del papà di Viola e a queste: come vediamo la vita? cosa pensiamo del suo valore? con chi siamo davvero intimi se diamo la rappresentazione della nostra vita in pasto a tutti? e perché la vita va ripresa e rivista?

Se quello che viviamo, facciamo, vediamo non viene reduplicato attraverso la registrazione, l’immagine, il video, sembra non avere più valore. (Ibidem)

La vergogna è salutare

L’esposizione immediata senza darsi il tempo per una scelta sembra dirci qualcosa di noi, del fatto che non abbiamo pudore o ne abbiamo meno. Ma la vergogna e il pudore sono sentinelle attentissime; avvisano della presenza dell’altro e anche della presenza in noi di qualcosa che vada custodito. Se scompaiono o calano drasticamente forse è perché in questa condivisione di tutti con tutti siamo soli.

La vergogna mostra con chiarezza il fatto che per noi c’è un altro, testimonia cioè che avvertiamo la sua presenza. Ci si vergogna di essere visti e proprio là dove meno ce lo si aspetta: ad esempio, mentre guardo dalla serratura, oppure mi sto sistemando gonna o pantaloni! La vergogna è la prova del fatto che non siamo soli, che qualcun altro, diciamo così, potrebbe vederci. In fondo, vergognarsi, è una prova di esistenza: è provando una certa vergogna che mi sento vivo, vivo nello sguardo dell’altro. Inoltre, vergogna e pudore sono al contempo degli argini, cioè degli “strumenti” psichici utili a regolare la spinta delle pulsioni.

Questa riflessione di Matteo Bonazzi filosofo, psicoanalista, socio Associazione Pollicino e Centro crisi genitori Onlus è affascinante e ci dice qualcosa di vero sui rischi del nostro tempo; tace però una serie di differenze e di gradazioni che invece esistono. Non tutti condividono tutto, e non sempre manca la vergogna o il sano timore dello stigma sociale: proprio sul web, nei social, si scatenano violenti attacchi contro vittime che vengono umiliate proprio per mezzo di contenuti video usati come terribile vendetta.

Spesso sentiamo dire da vari ed estemporanei pulpiti che non ci dobbiamo preoccupare di cosa pensano gli altri, che dobbiamo sentirci liberi ed essere noi stessi, ma paradossalmente questo motto viene ripetuto quasi sempre a favore di telecamera e da chi ha fatto dell’esposizione continua una malattia se non addirittura un business. Ben venga la vergogna allora; ben venga il freno imposto dalla paura di dispiacere o di scandalizzare altri. Tornino ad ergersi questi argini:

Inoltre, vergogna e pudore sono al contempo degli argini, cioè degli “strumenti” psichici utili a regolare la spinta delle pulsioni. Se provo pudore e vergogna, riesco, ad esempio, a limitare gli sfoghi aggressivi affinnché non siano eccessivi o anche a poter riflettere se esibire foto e video dei figli sui social.

Abbiamo bisogno di essere guardati e di sentirci amati

Quello che forse davvero è in crisi è la consapevolezza condivisa e personale di una presenza ulteriore, la certezza di essere sempre sotto lo sguardo di un Padre. E’ venuta meno la memoria o meglio c’è tanta sete di un Dio che ci ama e ci segue con cura e sollecitudine”personalizzata”, fino a casa nostra; molto di più di Amazon per esempio. Senza Dio come punto di fuga del nostro sguardo sull’esistenza le cose si ingigantiscono e si deformano; i figli diventano il bene più grande e poi ci spaventiamo per non avere da dare loro bene più grande del nostro piccolo amore e per non saperli difendere, alla fine, dal male e dalla morte. Pensare ai figli come ad un proprio bene, ad un possesso, ci schiaccia. Poterli riconsegnare al Padre, invece, rasserena cieli e animi (e forse svuota newsfeed).

Ma la preoccupazione del padre di Viola può forse riguardare anche l’evidenza che i nostri figli sono quanto di più importante abbiamo ma non ci appartengono. Assumono così grande importanza, proprio perché non sono nostri ma di un tempo a venire. Certo è un pensiero faticoso e non è facile riconoscere che i ­figli non sono una nostra proprietà e sono “­figli” di questo tempo e di quello futuro! Quindi, tornare a provare vergogna, servirci di un pudore e di un rispetto, è in fondo un buon modo di ricordarci, di generazione in generazione, che quel che più conta è proprio ciò che apparentemente si perde, perché destinato a un altro e a un tempo che non conosceremo.

Non appartengono solo ad un tempo futuro diverso da questo, diverso da noi destinati ad essere superati. Appartengono all’eterno, dobbiamo ricordarcelo e poterglielo testimoniare.

Fonte: Paola BELLETTI | Aleteia.org

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