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Oleg Orlov, Nobel per la pace in carcere. Una sentenza farsa del Tribunale di Mosca

Copresidente e cofondatore dell’ong Memorial, premiata a Oslo nel 2022, è stato condannato a due anni e mezzo. Il processo che si è aperto con la morte di Navalny si chiude a nove anni dall’uccisione di Nemtsov

Lo hanno portato via in manette, scortato da decine di agenti antisommossa coi volti coperti e i cani al guinzaglio. Oleg Orlov, storico volto della dissidenza russa, cofondatore e copresidente di Memorial, l’Ong Nobel per la Pace messa al bando dalle autorità. Un uomo di settant’anni, occhiali, capelli e baffetti bianchi, trattato come il più pericoloso dei criminali soltanto per aver scritto un testo contro il conflitto in Ucraina. Quando la giudice Elena Astakhova ha pronunciato la sentenza, “due anni e mezzo di carcere”, Orlov ha strizzato l’occhio a Tatiana Kasatkina, sua moglie e compagna di lotta, e l’ha rimbrottata bonariamente chiedendole di non piangere: «Tania, me lo avevi promesso». Gli agenti del tribunale Golovinskij di Mosca non hanno perso tempo: gli hanno messo le manette ai polsi e lo hanno rinchiuso nell’“aquario”, la gabbia di vetro degli imputati. Un puro sfregio dimostrativo. Pochi minuti dopo, lo hanno portato via tra due ali di sostenitori esplosi commossi in un applauso e in un urlo:My vas Ljubim , «Le vogliamo bene».

Instancabile e indomito attivista, Orlov aveva scelto di restare in Russia e continuare a protestare anche dopo il 24 febbraio di due anni fa, pur sapendo che prima o poi il mancato esilio gli sarebbe costato il carcere. «Certo che ho paura. Ma che ciposso fare?», ci aveva confessato un anno fa dopo che lo avevano accusato di “discredito delle forze armate” per aver tradotto in russo sul suo profilo Facebook il testo Volevano il fascismo, lo hanno avuto che aveva scritto per la testata francese Mediapart .

Quel primo processo si era concluso lo scorso ottobre con una multa da 150mila rubli, 1.500 euro. Una pena troppo mite nella Russia di Vladimir Putin e dell’Operazione militare speciale. Processo da rifare, ha deciso il pubblico ministero, perché mancava l’aggravante: odio politico e ideologico. Sono bastate tre udienze per arrivare alla condanna e la prima si è tenuta il 16 febbraio, giorno della morte in carcere dell’oppositore Aleksej Navalny.

Se un anno fa Orlov aveva usato l’aula di tribunale come un’arena politica, stavolta ha rinunciato a partecipare al dibattimento-farsa. Non è intervenuto, non ha interrogato i testimoni dell’accusa, né ne ha convocati a sua difesa. A inizio mese gli era stata affibbiata la famigerata etichetta di “agente straniero” e non voleva trascinare qualcun altro sotto il rullo compressore della repressione con sé. In aula si è messo a rileggere Il processo e nella sua “ultima parola”, l’intervento riservato agli imputati a fine processo, ha citato «l’eroe» di Franz Kafka che non sa di che cosa sia accusato, ma ciononostante viene condannato e giustiziato. «In Russia l’accusa ci viene formalmente annunciata, ma è impossibile comprenderla nel quadro della legge e della logica. Tuttavia capiamo perché siamo detenuti, processati, arrestati, condannati, uccisi. Siamo puniti per aver permesso a noi stessi di criticare le autorità. Nella Russia di oggi è assolutamente proibito». «Sono un gatto a cui tagliano la coda, un pezzo alla volta. È estenuante. Ma non mi pento di essere rimasto», aveva detto dopo l’inaspettato rinvio della sentenza. «Pentirsi equivarrebbe a negare tutta lamia vita».

Ieri, quand’è arrivato, ha ringraziato come sempre i presenti del sostegno, ha stretto mani, ricambiato abbracci e, dopo aver fumato l’ultimo paio di sigarette da uomo libero, è entrato dentro portando con sé un borsone. Qualche vestito e pochi libri. Orwell, Faulkner… Teso, ma pronto alla battuta. «Perché stiamo qui senza far nulla?», ha chiesto prima che arrivasse la giudice facendo partire la canzone dei Ddt Rodina, vernis domo j, “Patria, torna a casa”, e cantando sui versi «Non impazzire. Questa non è la tua guerra».

Per Orlov il pacifismo è stato una vocazione sin da quando, da giovane biologo, aveva assemblato da sé un poligrafo per stampare volantini contro l’invasione russa dell’Afghanistan. Alla fine degli Anni ’80 aveva cofondato Memorial insieme ad Andrej Sakharov per documentare e preservare la memoria delle vittime del Terrore staliniano. Anche Sakharov fu insignito del Nobel per la pace. Arrestato, venne confinato a Gorkij. Neppure il regime sovietico aveva osato ingabbiare un Nobel per la pace. La Russia di Putin sì. Un’altra linea rossa superata dal Cremlino.

Ieri lo ha detto anche Jan Rachinskij, che nel 2022 ritirò il Nobel a nome di Memorial: «È un ritorno ai tempi sovietici, quando tutte le opinioni non gradite dalle autorità venivano bollate come false. Lo sappiamo bene perché lo studiamo da anni. Conosciamo tutti la storia di Copernico e Galilei accusati di screditare la teoria della terra piatta. Ecco, stanno provando a farci tornare alla teoria terrapiattista».

In aula, oltre a una ventina di ambasciatori e diplomatici occidentali, compreso l’incaricato d’affari italiano Pietro Sferra Carini, c’erano anche l’attivista Svetlana Gannushkina, il collaboratore di Navalny Nikolaj Ljaskin, l’ex deputata municipale Yulia Galjamina e Aleksandr Verkhovskij, capo della defunta Ong Sova. Le solite facce, presenti tutte le volte, troppe, che un dissidente finisce dietro le sbarre. Sempre meno, sempre più sconsolate. Chiuse le Ong, vietati i cortei, i tribunali sono diventati l’ultimo luogo di ritrovo per la dissidenza. Un posto per contarsi e dirsi addio.

Ieri, in un’altra tetra coincidenza, il processo che si è aperto con la morte di Navalny si è concluso nei nove anni dall’uccisione dell’oppositore Boris Nemtsov, freddato sul ponte Bolshoj Moskvoretskij all’ombra del Cremlino. Per anni l’anniversario era stato l’unico pretesto per tenere cortei autorizzati. Non più. L’unico omaggio consentito: deporre un fiore sul luogo dell’omicidio. Nove anni fa, ricordavano in tanti ieri, Nemtsov fu salutato nell’ormai smantellato Centro Sakharov. Oggi il team di Navalny cerca invano una sala a Mosca per l’ultimo saluto: «Alle agenzie funebri è stato detto di non lavorare con noi», ha scritto Kira Jarmish. E l’avvocato che ha aiutato la madre a recuperare il corpo, Vasilij Dubkov, è stato detenuto e poi rilasciato.

Lunedì Orlov aveva detto: «Quello che è successo a Navalny è una tragedia, un crimine terrificante. Ma la morte, l’omicidio, pende, come una spada di Damocle, su tutti i detenuti politici». Ora quella spada pende anche su di lui. E la Russia sembra sempre più lontana dal Paese per cui hanno combattuto Nemtsov e Navalny.

Fonte: Rosalba Castelletti | Reppublica.it

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