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Neurotecnologie. La vera sfida è restare umani

Il 2024 rimarrà nella storia della medicina come l’anno in cui, per la prima volta, è stato impiantato nel cervello di un uomo un chip comunicante con un computer senza interposizione di connessioni materiali. Noi ricercatori della materia eravamo pronti da tempo a ricevere con gioia questa notizia. Per amore della verità mi sento in dovere di condividere sinteticamente alcune riflessioni che sgomberano il campo da informazioni sbagliate o fuorvianti.

La progettazione e la realizzazione del dispositivo attualmente in uso prevedono un utilizzo unicamente medico limitatamente ad aree del cervello umano prive di funzioni psichiche superiori, cioè quelle che determinano la vita di relazione degli umani con il prossimo e con l’ambiente. Il dispositivo impiantato recentemente non è progettato per la estrazione di dati a fini commerciali o, tanto meno, per il condizionamento della psiche umana.

Siamo certamente all’alba di una nuova era, padroni di una tecnologia che avanza rapidamente per il bene dell’umanità. Tuttavia, è pur vero che l’intervento dell’uomo su un suo simile per modificarne le funzioni neurologiche essenziali alla vita di relazione induce una comprensibile preoccupazione. La paura generata da questa innovazione, in un momento storico dominato dalla debolezza dei valori fondanti e da diffusi fenomeni di violenza e di prevaricazione, è figlia di un pensiero dove prevalente è il profilo dell’utile, per cui il profitto rende accettabile tutto ciò che lo determina. Anche l’idea che scienza ed etica siano tra di loro lontane suscita ulteriori timori nella collettività, nonostante gli uomini di scienza e di fede proseguano con convinzione nel dialogo per il raggiungimento del bene dell’uomo, come testimonia la recente storica visita del cardinale Pietro Parolin all’Accademia Nazionale dei Lincei.

La scienza intesa come conoscenza è sempre buona, mentre la tecnologia può non esserlo. Perciò va guidata in primis dal diritto naturale oltre che dall’etica e dalla giurisprudenza. Per questo non si può prescindere da un pensiero che rimetta al centro l’uomo insieme ai diritti naturali che gli appartengono e che costituiscono il fondamento del concetto di etica e del diritto universale. In Occidente questa determinazione di regole è stata basata per due millenni sul corpus filosofico e morale proprio del cristianesimo, divenuto un patrimonio collettivo di valori condivisi anche dai non credenti, scienziati inclusi. Oggi dobbiamo constatare che la dottrina morale si è relativizzata e ha assunto i contorni di quel «pensiero calcolante», per dirla con Heidegger, svincolato dall’etica antropologica che affonda le proprie radici nella tradizione giudaico-cristiana. Un’etica non più legata alle categorie culturali e morali del sacro e inviolabile e della pietas, , ma semplicemente dell’utile.

Il rischio è che si ceda a un pensiero tecnico senza astrazione mosso da logiche opportunistiche che può condurre a scenari inquietanti, come il condizionamento della mente umana per scopi diversi da quelli della cura. Il controllo di questa nuova tecnologia, pertanto, dovrà essere basato sul principio della centralità dell’uomo e della tutela del malato. Per noi ricercatori non è solo un’enorme responsabilità, ma anche un’eccezionale opportunità per rinvigorire le nostre radici morali e culturali affrontando questa innovazione senza deflettere a utilizzi impropri. La vera sfida è rimanere umani.

È dunque necessario normare fin d’ora l’utilizzo di questi dispositivi medici. In un mondo globalizzato le regole da applicare non possono che essere internazionalmente condivise con la massima trasparenza e ufficialità. L’imprescindibile confronto tra scienziati, giuristi, filosofi, uomini di fede non potrà che essere approfondito e incessante al fine di non rincorrere, ma di anticipare l’evoluzione tecnologica. Solo mediante la condivisione e il rispetto dei nostri e degli altrui valori sarà possibile garantire la “giusta” applicazione di una invenzione che potrà curare ciò che ora è incurabile.

Fonte: Pietro Mortini | OsservatoreRomano.org

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