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Giornata mondiale della felicità: qual è il segreto per vivere felici?

Il 20 marzo si celebra la Giornata mondiale della felicità. Ma essere soddisfatti della propria vita è possibile? Ecco che cosa dicono gli esperti.

Difficile definire la felicità: per un genio come Albert Einstein è una vita calma e modesta, per il sociologo Zygmunt Bauman è riuscire a superare le difficoltà. E secondo gli studi degli psicologi si tratta sia dell’emozione temporanea che proviamo quando stiamo bene, sia della serenità che viene dal sentirci realizzati, che è più duratura. Qualsiasi cosa sia la felicità, però, c’è una buona notizia: non è un regalo che cade i n testa a pochi fortunati ma uno stato d’animo che si può, anzi si deve imparare. Felici si diventa, insomma, basta un po’ di impegno: chiunque può farcela, perfino chi si sente come Paperino e pensa che non gliene vada mai dritta una.

I geni giusti. Un “tesoretto” di felicità, bisogna dirlo, arriva con il corredo genetico: alcuni tratti della personalità che favoriscono la propensione a trasformarsi nel classico cuor contento, ovvero avere un temperamento estroverso, sono scritti nei geni. «Gli studi però ci dicono che l’impatto del Dna sul “grado di felicità” si ferma al massimo al 40%: il resto lo fanno le scelte personali e l’atteggiamento mentale», spiega Chiara Ruini, docente di Psicologia clinica all’Università di Bologna. «Decidere a che cosa dedicare più tempo e attenzione nelle nostre giornate influenza lo stato d’animo, e per farlo cambiare in meglio occorre fare cose che ci piacciono. Inoltre bisogna imparare a vedere il bicchiere mezzo pieno, la vera chiave per la felicità».

È provato che l’ottimismo, fra l’altro, fa campare più a lungo: uno studio sui centenari del Cilento ha appena dimostrato che chi raggiunge un’età a tre cifre è più positivo e felice dei familiari under 75. Ma allora perché crucci e umor nero, che ci accorciano la vita, sono così diffusi? A discolpa dei pessimisti va detto che l’uomo è evolutivamente portato a ruminare sulle esperienze negative, perché per sopravvivere serve capire ciò che è bene evitare. Lo ha spiegato lo psicologo Martin Seligman nel suo saggio Imparare l ‘ottimismo (Giunti editore): vedere tutto rosa può far sottovalutare i rischi. Il fenomeno ha perfino un nome: “sindrome di Pollyanna”, la ragazzina sempre contenta protagonista dell’omonimo romanzo di inizio ‘900 (trasformato poi in celebri film negli anni ’60).

Un errore di prospettiva che porta prima o poi al disastro: l’ottimismo quindi deve essere realistico, secondo Seligman, e si può impa rare combattendo i pensieri neri quando si affacciano alla mente.

Inutile quindi negarli, meglio sfidarli cercando di essere oggettivi: se per esempio in ufficio ci sentiamo inadeguati e questo provoca malessere, proviamo a chiederci su quali basi lo crediamo, se stiamo dando interpretazioni sbagliate ai fatti, come ci vedremmo dall’esterno. Il metodo prevede anche di coinvolgere un amico nella “discussione introspettiva”. A volte basta questo per reagire e ritrovare il sorriso. E se proprio non si può fare a meno di continuare a ruminare preoccupazioni, meglio darsi un appuntamento mentale: “ci penserò stasera alle…” e poi farlo davvero (discutendole tra sé con le accortezze già illustrate). Sembrerà strano, ma funziona: i pensieri neri smettono di assillare.

Scorciatoie. Le ricerche provano che solo una persona su tre non si lascia abbattere dalle difficoltà e continua a vedere i lati belli della vita. Ma diventare dei veri ottimisti può non essere banale poiché il primo passo è ammettere che si guarda il mondo in negativo, e i pessimisti incalliti difficilmente ci riescono. Così, molti psicologi hanno cercato “ricette” più semplici che pian piano possono por-tare verso la felicità. Una di esse è la cosiddetta “scrittura espressiva”: quindici minuti al giorno passati a scrivere emozioni ed esperienze per risolvere meglio i conflitti, migliorare l’umore e sentirsi più soddisfatti. James Pennebaker, lo psicologo dell’Università del Texas che ha studiato a lungo gli effetti di questo tipo di scrittura, sostiene che corregge la rotta della vita portandola sui binari che vorremmo (e che ci rendono più felici).

Un effetto simile è stato attribuito alla “regola del minuto”: quando ci sembra di essere sommersi di cose da fare, bisogna iniziare con ciò che può essere sbrigato in un minuto. Basterà questo per sentirsi subito meglio, una piccola iniezione di ottimismo per proseguire la giornata. Che sia rispondere a una email o appendere il soprabito buttato sul divano, anche un piccolo gesto può contribuire a renderci più soddisfatti perché, anziché perder tempo, abbiamo fatto qualcosa di concreto.

Condividere senza social. Vietato invece pensare che serva un partner per sentirsi più sereni: uno studio tedesco condotto su oltre 24mila persone ha dimostrato che il matrimonio in media aumenta solo di poco la sensazione di felicità, specialmente se l’individuo ha già un’ampia rete sociale. Non conta quindi la fidanzata o il fidanzato, contano le relazioni, di qualsiasi natura.

«Studi su bimbi di dieci anni mostrano che a quell’età si è già capaci di riconoscere la felicità e per la maggioranza è un’esperienza che si prova nelle interazioni con gli altri», dice Ruini. «Perché non sia effimera, poi, la felicità va condivisa. Non per forza sui social, anzi: spesso su Instagram, Facebook e simili si postano momenti felici per mettersi in mostra, non per gioire davvero insieme agli altri».

Le reti sociali dove la felicità diventa contagiosa sono quelle delle persone in carne e ossa, come dimostra una ricerca dell’Università di Yale condotta analizzando l’enorme mole di dati del Framingham Heart Study (iniziato nel lontano 1948 sui circa 5mila abitanti della cittadina Usa, oggi alla terza generazione di partecipanti): stando ai risultati per essere felici è bene circondarsi di persone che lo sono già, visto che per ogni amico felice in più cresce del 9% la probabilità di esserlo. La felicità, insomma, dipende tantissimo da quella di chi ci è vicino, fino al terzo grado di separazione: in altri termini se io sono felice influenzerò in positivo i miei amici, i loro amici e gli amici dei loro amici in una vera cascata di benessere.

Socializzare, sempre. Oltre a scegliere bene le compagnie, bisogna però anche vivere nel posto giusto: un sondaggio della statunitense Knight Foundation condotto su 43mila persone ha scoperto che la sensazione di benessere psicologico è più elevata all’interno di comunità ospitali,che favoriscono i contatti sociali spontanei (perché per esempio ci sono parchi, ristoranti, circoli, cortili condominiali) e che siano architettonicamente belli, con un bel po’ di spazi verdi. È dimostrato, infatti, che in chi cammina spesso in parchi e boschi le aree cerebrali dove di solito si rimuginano i pensieri negativi sono meno attive. Il che significa che si tratta di persone più contente.

Ricchi? Non serve. Ed è vero che i soldi da questo punto di vista non contano: chi vince alla lotteria non è più felice di chi non ha mai vinto neppure una tombola. Se non mancano le risorse per vive-re quel che c’è in più non cambia granché lo stato d’animo: comprare una macchina nuova o un abito alla moda potrà dare un piccolo momento di piacere, ma non modifica il livello generale di felicità. Semmai, bisognerebbe comprare tempo: due indagini su oltre 6mila persone in Usa, Canada, Germania e Danimarca dimostrano che spendere per servizi che fanno risparmiare tempo (dal cibo consegnato a casa all’aiuto per le faccende domestiche) rende più felici rispetto a pagare per oggetti materiali. Perché infondo il senso della felicità è tutto lì: «fondamentale entrare in contatto con se stessi e capire che cosa ci fa stare bene davvero.

Alla ricerca della felicità. «Non è mai troppo tardi per domandarselo», conclude Ruini. «Per riuscirci però bisogna rallentare, prendersi tempi e spazi per sé: pochi lo fanno, eppure è il primo vero passo verso la felicità», interviene Andrea Fianco, presidente della Società Italiana di Psicologia Positiva. «Le ricette “facili” infatti non funzionano se prima l’individuo non ha capito che cosa». Del resto, una vita felice non è una sorta di nirvana in cui tutto fila liscio: «Gli ostacoli servono, spronano a mettere in campo le nostre migliori risorse», puntualizza Fianco. «Essere felici significa essere consapevoli di dover attraversare fasi negative: sono queste che fanno intervenire la nostra parte volitiva, vitale, per cavarcel poi vivere appieno i momenti belli». Forse, allora, aveva ragione Bauman: la felicità più duratura è quella che arriva dopo aver superato le avversità, quando finalmente si può dire “ce l’ho fatta”.

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