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Stanislav Petrov, l’uomo che salvò il mondo dall’apocalisse nucleare

Quella che segue è una storia di coraggio. Ma è anche una storia di ingratitudine, che è la faccia maligna del sacrificio. Perché essere uomini, realmente uomini, non è mai una scelta comoda. Il coraggio non si paga. Stanislav Petrov lo sapeva bene.

Correva l’anno 1983, si era ancora in guerra fredda. Anzi, l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Ronald Reagan aveva scaldato parecchio la temperatura fra le due superpotenze, dato che l’ex attore inquilino della Casa Bianca, definendo l’Unione sovietica “l’impero del male”, aveva annunciato un ambizioso piano di armamento spaziale. Mentre qualche crepa si stava già aprendo nel muro del blocco comunista, la Nato progettava di istallare missili nella Germania dell’Ovest e pianificava una massiccia esercitazione militare in Europa.

A Mosca, dunque, non si sentivano per niente sicuri. Anche perché molti dirigenti dell’apparato erano reduci della Seconda guerra mondiale e ricordavano perfettamente come, con il pretesto di una esercitazione, Hitler avesse ingannato Stalin e lanciato l’invasione. In considerazione di questi fattori la dottrina militare era giocoforza impostata: massima allerta a fronte di ogni piccolo segnale sospetto e reazione massiccia al primo sentore di attacco nucleare.

Non erano dei pourparler: il primo settembre 1983, un aereo di linea sud coreano era penetrato per errore nello spazio aereo sovietico e i russi non avevano esitato ad abbatterlo senza preavviso, uccidendo 269 persone, tra le quali un senatore e diversi cittadini americani. Come dire: si era “a tanto così” dalla catastrofe.

Ciononostante, il 25 settembre di quello stesso anno, Stanislav Petrov si sta pregustando una tranquilla serata autunnale. Quarantaquattro anni, colonnello della sezione spionaggio militare dei servizi segreti dell’Unione Sovietica, è stato dislocato al “Centro di allerta precoce”, situato all’interno del bunker Serpukhov-15, sul confine occidentale dell’Urss, da dove coordina la difesa aerospaziale russa.

Quella sera però è di riposo. Lo aspettano magari un bicchierino di vodka e una bella dormita ristoratrice. Ma i programmi, si sa, sono fatti per essere stravolti: il collega che deve entrare in servizio avvisa che non può andare al lavoro perché, sostiene, è ammalato. Tocca un’altra volta a Petrov. Niente vodka e niente cuscini. Lo attende un’altra notte nel bunker.

Il compito di Petrov è analizzare e verificare tutti i dati provenienti dal satellite in caso di un possibile attacco nucleare americano e in caso di allerta dare il via alla procedura stabilita dal protocollo, che prevede un’immediata, massiccia, rappresaglia. Alle 00.14 dell’ormai 26 settembre, il colonnello è rassegnato a un’altra sonnecchiante notte di lavoro, quando viene destato dall’improvviso, assordante suono delle sirene. Il colonnello salta sulla sedia. Intontito, guarda lo schermo dei monitor di fronte a lui. Vi campeggia l’avviso «Attacco di missile nucleare imminente». Un ordigno risulta lanciato da una delle basi degli Stati Uniti.

Calma, anzitutto. Un respiro profondo. Petrov comincia a seguire il suo protocollo. Chiede una conferma dalla veduta aerea, ma non riceve informazioni utili, anche a causa delle avverse condizioni atmosferiche. Certo, sarebbe strano un attacco compiuto con un solo missile…Per ora, meglio non fare niente. Poco dopo, però, il sistema mostra un secondo ordigno in arrivo. E poi un terzo. Sulla grande mappa elettronica degli Stati Uniti una spia lampeggiante indica con insolenza la base militare sulla costa est: i lanci vengono da lì. Lampeggia un quarto missile nucleare e immediatamente un quinto. In tutto sono passati meno di 5 minuti. Il tempo di volo di un missile balistico intercontinentale dagli Stati Uniti è di 20 minuti.

Petrov ha un quarto d’ora per decidere se deve far partire la guerra. I 29 livelli di sicurezza previsti dal protocollo cadono uno ad uno. Il colonnello è dilaniato dai dubbi: se si vuole attaccare perché far partire 5 missili solamente? Però, se si trattasse di un errore, è plausibile che possa ripetersi per cinque volte di seguito? E se fosse un’astuta strategia americana per ritardare la reazione sovietica? L’olocausto nucleare tanto temuto stava per accadere e lui non faceva niente? Ha cinque missili nucleari balistici intercontinentali in viaggio verso l’Urss e una manciata di minuti per prendere la decisione. In 120 all’interno del bunker, tra ufficiali e ingegneri militari, sono paralizzati, in attesa della sua scelta: premere o no il “pulsante rosso”. Se lo facesse, si ripete Petrov, avrebbe semplicemente seguito la procedura, che colpa ne avrebbe? Ma come potrebbe poi convivere con la propria coscienza, l’unico vero “superiore” a cui, su questa terra, nessuno sfugge…Poi, racconterà, riflette: gli americani non sono ancora in possesso di un sistema di difesa missilistico e sanno che un attacco nucleare all’Urss equivale all’annientamento immediato del proprio popolo. E benché diffidi di loro dice a se stesso: «Un tale imbecille non è ancora nato nemmeno negli Stati Uniti».

Decide di segnalare un malfunzionamento del sistema. Ora si può solo aspettare. Salvezza o sacrificio inerme. A pochi secondi dal conteggio finale, le sirene smettono di suonare e le spie di allarme si spengono. Nessun missile. Era stato, in effetti, un errore del sistema. I compagni di Petrov, madidi di sudore, gli si gettano addosso, abbracciandolo e acclamandolo. Lui si accascia sulla sedia e beve oltre mezzo litro di vodka senza respirare. Alla fine di quella notte, avrebbe dormito 28 ore di fila.

Quando tornò al lavoro, i suoi compagni gli regalarono una Tv portatile, di fabbricazione russa, per ringraziarlo. Il suo superiore gli assicurò che sarebbe stato certamente decorato per avere evitato la catastrofe e che egli stesso avrebbe proposto di dedicare un giorno dell’anno alla sua impresa.

Ma non andò così. L’Urss, comprensibilmente secondo la logica della guerra, non poteva permettere che gli Stati Uniti e il popolo russo venissero a conoscenza di quanto era successo. Così, Petrov fu ammonito per non essersi conformato al protocollo e fu in seguito relegato in una posizione gerarchica inferiore. Poco tempo dopo fu mandato in pensionamento anticipato (con l’equivalente di 200 dollari al mese), la strada avviata verso una vecchiaia di solitudine e anonimato.

La guerra fredda finì, almeno così dicevano i notiziari. Di notte, tra una sigaretta e l’altra, molto spesso Petrov riviveva quella notte drammatica e esaltante. Guardava fuori alla finestra e pensava che persino quei grigi palazzoni della periferia di Mosca dovevano la loro esistenza a lui. Eppure non erano molti a saperlo.

Nel 1998, poi il comandante in capo di Petrov all’epoca dei fatti, Yury Votintsev, scrisse un libro di memorie, nel quale rivelò l’accaduto, il cosiddetto “incidente dell’equinozio d’autunno”, causato da una rarissima congiunzione astronomica che aveva mandato il tilt il sistema, facendo scambiare dei riflessi di luce per la scia di ordigni nucleari. La vicenda richiamò l’attenzione di Douglas Mattern, presidente di “Associazione di cittadini del mondo”, un’organizzazione internazionale attiva nella promozione della pace. Mattern si mise in testa di rintracciare questo eroe sconosciuto, a cui tutti dobbiamo la fortuna di essere ancora su questo pianeta, per consegnargli un premio. Non fu facile. Trovare traccia dell’abitazione di Petrov in una fila enorme di grigi complessi condominiali a 50 chilometri da Mosca era come cercare il classico ago in un pagliaio, anche perché molti appartamenti non avevano né citofono né telefono. Uno degli abitanti a cui chiese informazioni, racconta Mattern, gli rispose: «Lei deve essere pazzo. Se esistesse davvero un uomo che ha ignorato un avviso di attacco nucleare degli Stati Uniti, sarebbe stato giustiziato. A quel tempo non esisteva una cosa come un falso allarme in Unione Sovietica. Il sistema non sbagliava mai».

Alla fine però Mattern riuscì a rintracciare l’ex ufficiale. «Viveva come un barbone — racconta —. Zoppicando, i piedi gonfi, non poteva più camminare molto e gli era doloroso stare in piedi, usciva solo per le provviste». Negli anni successivi, fino alla sua morte, avvenuta nel 2017, Petrov ricevette finalmente molti riconoscimenti. L’attore e regista statunitense Kevin Costner gli dedicò persino un documentario, intitolato “Pulsante Rosso”. Tuttavia l’ex militare continuò a vivere nel suo piccolo appartamento alla periferia di Mosca, in relativo anonimato. Diede la maggior parte del denaro dei premi alla sua famiglia, tenendone un po’ per comprare l’aspirapolvere che sognava e che purtroppo si rivelò presto difettosa. Come capita a molte macchine: del resto, nessuno lo sapeva meglio di lui.

Fonte: Marco BELLIZI | OsservatoreRomano.va

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