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ULTIMO BANCO – Effetto Gige

Che cosa fareste se trovaste un anello capace di rendervi invisibili? È ciò che accadde al pastore Gige, che se ne servì per entrare nel palazzo regale, sedurre la regina e, con il suo aiuto, uccidere il re per poi sostituirlo. Platone si serve di questo racconto nel suo trattato di politica, la Repubblica, per chiedersi se l’uomo abbia un’etica solo per paura delle sanzioni sociali. Se posso agire senza esser visto chi divento? Si parla infatti di effetto Gige per spiegare l’aggressività o l’impostura a cui spinge l’anonimato, per esempio in rete: vedere senza essere visti dà potere o illude di averlo. È proprio il contrario di ciò che accade nel bel libro di Sylvain Tesson, La pantera delle nevi, da cui è stato tratto un altrettanto bel film, al cinema adesso. Vi si narra il tentativo del fotografo naturalista Vincent Munier, accompagnato dallo stesso Tesson, di immortalare sulle vette dell’Himalaya un animale antichissimo, bellissimo e rarissimo perché in via d’estinzione. Un mese a 5mila metri di paziente, silenzioso, faticoso ed estatico appostamento tra animali insoliti e scarsissime presenze umane, di cui Tesson fa la cronaca, arrivando alla conclusione che proprio il non poter vedere senza essere visti (gli animali li sorprendono sempre) libera dall’ansia di controllo, fa venir voglia di prendersi cura delle cose e restituisce l’incanto. Anello di Gige o macchina fotografica di Munier?

Nella stessa settimana in cui ho visto il film tratto dal libro di Tesson ho fatto l’esperienza di una immersione nel metaverso, grazie a un oculus (occhio, visore) di ultima generazione: io ero il mio occhio. In pochi anni, quando si combineranno strumenti, trasmissione dati a 5G e computer quantistici capaci di calcolare a velocità mai viste, «entreremo» in un negozio con il nostro avatar che ci riprodurrà al millesimo di centimetro e di grammo, indosseremo quello che desideriamo, per poi riceverlo a casa, su misura, poco dopo. Il metaverso ci condurrà verso la simbiosi totale con un mondo consumabile in ogni istante e senza corpi reali: la vita non sarà più «data» e quindi «ricevuta», ma «dati» e quindi «controllata». Saremo invisibili e onnipotenti consumatori, anche se il vero potere lo avrà chi gestirà la nuova architettura del reale: non è un caso l’alleanza siglata pochi giorni fa da Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp) e Microsoft (Teams, Office, Windows) per accelerare i tempi di realizzazione e popolazione del metaverso. In questa occasione Zuckerberg ha detto che il ruolo di Meta «non è semplicemente quello di costruire un ecosistema, ma assicurarsi che prevalga. Gli avatar saranno centrali nell’espressione di se stessi», ci renderanno «più presenti, più produttivi, più noi». La mia proiezione digitale mi renderà più me stesso o aumenterà l’effetto Gige? La tecnologia aumenta la nostra capacità di organizzazione e controllo del mondo, ci dà potere su cose e persone, ma proprio per questo non è mai neutra: si guadagna qualcosa e qualcosa va perduto. Il mito greco, che narra la vita come tensione ed equilibrio di polarità, rese infatti sposi Afrodite e Efesto, dea della generazione e dio della tecnica. Quando la tecnica cerca di dominarla del tutto, la vita de-genera, così come la vita senza tecnica è barbarie. Prendiamo per esempio una tecnologia che diamo per scontata: la scrittura. Trasferendo la memoria in un oggetto al di fuori, l’uomo ha dimenticato ciò che, in una cultura orale, era essenziale avere sempre con sé, anzi in sé. A questo effetto negativo ne corrispose uno positivo: la mente libera dall’eccesso di memorizzazione aveva più potere creativo e di scoperta. Questo accade con ogni invenzione tecnologica. Il cambio automatico semplifica la guida ma rende meno attenti e abili nel guidare. La tecnica «aumenta» l’uomo, ma aumentare una capacità ha sempre un contro-effetto sulla vita organica, più o meno ambiguo: la lavatrice ha un lato d’ombra minimo rispetto alla polvere da sparo. Prendiamo i social: aumentano la nostra capacità di interagire rapidamente con gli altri, ma rendono il corpo superfluo. Trasmettiamo immagini, vocali, messaggi di noi stessi, ma diventiamo sempre meno capaci di trasmettere noi stessi. Anche questo ha un effetto Gige. La Società Italiana di Pediatria ha infatti appena pubblicato la sintesi di 68 ricerche condotte dal 2004 al 2022 in tutto il mondo: più tempo i ragazzi trascorrono sui social più sviluppano sintomi depressivi. Perché? Non è chiaro se sia l’uso dei social a favorire sintomi depressivi o se tendenze depressive inducano a usare di più i social (comunque sia il circolo è vizioso), ma è invece sicuro che la causa del malessere deriva dalla mancanza di interazioni nel mondo reale: la sostituzione del «faccia a faccia» con «l’interfaccia» (il nome Facebook diceva già tutto). Le grandi aziende informatiche, visto l’uso che è stato fatto delle piattaforme di interazione digitale durante la pandemia, vogliono elevare a sistema questo modo di interagire: il metaverso è infatti per Zuckerberg l’evoluzione dei suoi social in ecosistema globale (anche se gli ecosistemi in natura si danno e vanno preservati, non sono imposti, altrimenti si chiama «vita in cattività»). La tecnica non è mai neutra, non dipende solo da come la usi, perché crea oggetti che mettono di fronte alla vita in una posizione ben precisa: non possiamo essere così ingenui da considerare il cellulare un oggetto neutro, è una scelta di sguardo e quindi di rapporto con il mondo (nessuno farebbe le code la notte per accaparrarsi solo un telefono!). Il metaverso e gli oggetti annessi/connessi ci daranno il subitunque (essere subito ovunque: spazio e tempo, sinonimo di «corpo», evaporano ulteriormente) in rapporto continuo con i dati delle cose e non più con le cose (lo specchio ci dirà come stiamo, come dovremo truccarci o vestirci, che cosa dovremo mangiare e comprare…). Si parla infatti di tecnologia «ingiuntiva»: ci dice che cosa fare se non chi essere. Tutto questo ha un prezzo, non solo economico (avremo tutti un visore): il corpo materiale è rimpiazzato da uno mentale, immaginato, digitale, cioè proprio la causa dei malesseri depressivi di cui sopra (non avere corpo ci isola, siamo in «con-tatto» ma «senza tatto»). E di chi saranno «i diritti» di questo corpo-avatar? Chi ne userà i dati biometrici e comportamentali? Chi ci avrà «donato» l’avatar (dal vecchio «profilo» al «tutto tondo») e creato l’ecosistema in cui vivrà (i social sono un ambiente non un mezzo di comunicazione). Saremo quindi presto dentro un social totale con conseguenze tutte da scoprire. Il metaverso poi è l’architettura ideale dell’intelligenza artificiale: l’occhio che tutto vede senza esser visto realizzerà la mente-alveare, non conterà più il singolo con le sue scelte imprevedibili, ma l’analisi e la gestione dei comportamenti per suggerirci prodotti sempre più mirati (Gige non fa certo beneficenza). Dato che la libertà rende l’uomo fallibile e imprevedibile, l’intelligenza artificiale ci eviterà di usarla troppo, sostituendosi al nostro giudizio. Saremo più de-corporati (il corpo è ritenuto in alcuni ambienti della Silicon Valley un hardware inadeguato e obsoleto) e più de-liberati, cioè alleggeriti del peso delle scelte e indirizzati: desidera così, risolvi così, curati così, fai così… Saremo sollevati dalla paura di decidere, dal timore di sbagliare, dal peso delle nostre azioni, dall’incertezza delle conseguenze. Sempre più ebbri di vedere senza essere visti, saremo in realtà scrutati continuamente. Lo aveva intuito J.R.R.Tolkien: Sauron, creatura angelica corrotta dal potere, forgia un anello per controllare tutto e tutti, ma a poco a poco diventa lui stesso l’anello, non ha sembianze umane ma è un gigantesco occhio onnivedente e invisibile, quindi onnipotente. Lungi dal creare un fantasy per bambini, lo scrittore più letto del XX secolo, dopo gli orrori di due guerre mondiali vissute in prima persona, squarciò il velo su una cultura che chiedeva salvezza solo al potere della tecnica (potenza) e non a quello dell’amore (cura). La recente e per me deludente serie (Gli anelli del potere) ispirata ai racconti precedenti il suo capolavoro, Il Signore degli Anelli, avrebbe dovuto narrare proprio questo: solo rinunciando a oggetti che dominano del tutto la vita, l’uomo esercita il vero potere, la parola e l’ascolto. Infatti solo l’alleanza tra popoli diversissimi, ma ognuno con qualcosa di unico da dare agli altri, come elfi, hobbit, nani e umani, consente di salvare cioè creare la Terra (di Mezzo). Una certa tecnologia spinge nella direzione della eliminazione di ciò che è caduco e fallibile, il corpo e la libertà, cioè la nostra capacità di «patire»: sentire la carne del mondo e degli altri come nostra, ricevere senza consumare, prendersi cura. Non abbiamo «pazienza», parola che viene dalla stessa radice di patire e di passione: senza pazienza perdiamo la passione per la vita. Nel suo libro sull’attesa della pantera Tesson scrive: «Avevo imparato che la pazienza era una virtù suprema: la più elegante, la più dimenticata. Aiutava ad amare il mondo prima di avere la pretesa di trasformarlo. Invitava a sedersi davanti al palcoscenico per godersi lo spettacolo, anche solo il fremito di una foglia. La pazienza era la reverenza dell’uomo per ciò che è dato. Quale dote permetteva di dipingere un quadro, di comporre una sonata e una poesia? La pazienza. Essa procurava sempre una ricompensa. Aspettare era una preghiera. Qualcosa stava arrivando. E se non arrivava niente, voleva dire che non avevamo saputo guardare». Senza pazienza si è spossessati di se stessi, si è in balia del potere che crediamo di avere o che altri hanno su di noi. Presto esulteremo per l’uso dei visori nella didattica, e sarà un ausilio straordinario per immergersi virtualmente nella Roma antica o nell’apparato circolatorio. Spero che nel frattempo troveremo anche il modo di aumentare la capacità di ricevere ogni cosa del mondo come parte di noi stessi, guardandoci negli occhi, facendo una carezza, dicendo una parola, lasciando essere le cose e le persone, con pazienza, cioè con passione. Compassione.

Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it

 

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