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Una scuola del merito… di chi insegna

Nel dibattito sulla scuola bisognerebbe tornare a parlare di come migliorare la qualità dell’insegnamento adeguandolo alla realtà di ieri, di oggi e di domani

Nel dibattito di questi giorni sul tema del merito è emersa una certa ambiguità sul suo significato: se esso sia la conferma di un privilegio che si ha per nascita, e quindi strumento di perpetuazione delle disuguaglianze, o sia il risultato di un percorso che la scuola fa fare accompagnando lo studente verso la sua crescita e il miglioramento delle sue conoscenze e capacità, diventando cosi lo strumento fondamentale di ascensore sociale. Nella seconda accezione, il centro è il percorso che lo studente intraprende e che viene offerto dalla scuola perché possano essere coltivati e fatti fruttare i talenti di tutti, anche dei meno dotati o in condizione di partenza più critiche.

In questo senso è evidente che chi parte da una condizione svantaggiata (per esempio, parla solo dialetto oppure, come accade attualmente, conosce solo 2000 parole) deve fare un percorso più arduo di chi parte da una condizione di vantaggio (per esempio, in famiglia sente parlare un buon italiano). Il problema appunto è il percorso che ciascuno è chiamato a fare: il che si fonda su due presupposti.

Il primo è che il percorso sia efficace: che ci siano cioè delle metodologie didattiche, un’impostazione della lezione, più semplicemente dei manuali scolastici, dei tipi di esercizio, delle attività, che siano in grado di produrre un miglioramento. Da questo punto di vista è assurdo continuare a prendersela con i test “Invalsi” o “PISA”, come fossero l’origine del male, mentre il loro scopo è di essere un termometro, non la soluzione al problema.

Purtroppo, a furia di attaccare gli strumenti di diagnosi, ci si dimentica di riflettere su quali soluzioni potrebbero essere messe in campo. Il fatto è che non basta proporre metodologie innovative, occorre interrogarsi sul cuore del sistema-scuola: gli insegnanti. Un insegnante efficace è colui che riesce a coinvolgere i suoi allievi ma anche a “spezzare il pane della conoscenza”, a dare feedback e valutazioni utili a proseguire la strada, a sostenere l’autostima e molto altro ancora.

Ci sono delle domande che riguardano la prassi scolastica e che emergono anche dai cambiamenti di mentalità di questi anni: la logica con cui si lavora sulle materie è ancora adeguata? Gli esercizi ripetitivi servono? Quali risultati danno pratiche consolidate, come per esempio l’insistenza sulla narratologia in italiano? Si sta mettendo in discussione la tendenza alla semplificazione dei manuali, che porta spesso a veri e propri errori concettuali? Come si tiene conto delle competenze non solo cognitive degli studenti? Si sta riflettendo su come risolvere i problemi di organizzazione rigida della scuola che crea orari frammentati, discontinuità, discriminazioni fra gli insegnanti stessi?

Il secondo presupposto è accettare il fatto che questo percorso non venga compiuto da tutti nello stesso modo. Ogni giovane deve arrivare alla propria eccellenza che è fatta da un mix di conoscenze e competenze teoriche e pratiche che devono esprimere e far crescere la singola personalità. Non tutti desiderano diventare quadri e dirigenti. Tanti trovano soddisfazione nel diventare sarti creativi nella moda, formaggiai esperti in slow food, tecnici che lavorano alla Ferrari, esperti di legnami e design che collaborano alla filiera del mobile e dell’arredamento, operai specializzati che, come i forbiciai di Premana nella bergamasca, partecipano a un’eccellenza nella produzione mondiale. In tutti i casi, anche chi fa un lavoro umile con dignità e senso di responsabilità non è da meno del presidente del Consiglio.

Dopo aver cercato di fare di tutti gli italiani dei liceali centrati sulla cultura generalista, ci siamo accorti che gli istituti tecnici di una volta erano il meglio in termini di dignità del lavoro (producevano fior di specializzati) e in termini di sostegno all’economia (la spina dorsale di un Paese come il nostro è la produzione d’eccellenza). L’eccellenza va quindi coltivata attraverso percorsi di studio validi e mirati, che valorizzino la vocazione di ciascuno. La soluzione va cercata ancora nei percorsi didattici: più efficaci e differenziati.

Sarebbe tutto più facile se invece di affrontare tutto in modo teorico e dall’alto in basso si imparasse dall’esperienza: non mancano nella scuola tanti professori seri, stimati, amati, capaci di impegnare gli studenti e così lasciando a loro qualcosa di prezioso. Bisogna far conoscere queste esperienze e diffonderle.

Invece che giocare sull’ambiguità che suscita la parola merito, bisognerebbe tornare a parlare di come migliorare la qualità dell’insegnamento adeguandolo alla realtà di ieri (che non bisogna smettere di conoscere), di oggi e di domani.

Fonte: Daniela NORTARBARTOLO e Giorgio VITTADINI | IlSussidiario.net

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