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Russia ed Europa, “non tutto e perduto”: la chiave per il dialogo in una storia di amore e odio

Nella famosa intervista a “The Atlantic” del 10 novembre 2016, Henry Kissinger disse: «Per capire Putin bisogna leggere Dostoevskij, non il Mein Kampf. Egli sa che la Russia è molto più debole di quanto non fosse una volta, anzi molto più debole degli Stati Uniti. È il capo di uno stato definito per secoli dalla sua grandezza imperiale, ma che poi ha perso 300 anni di storia con il crollo dell’Unione Sovietica. La Russia è strategicamente minacciata su ciascuno dei suoi confini: a Oriente dall‘incubo demografico della Cina; dall’incubo ideologico dell’Islam radicale lungo il suo confine meridionale; e, a Occidente, dall‘Europa, che Mosca considera una sfida storica. La Russia cerca il riconoscimento come grande potenza, come pari e non come supplice in un sistema progettato dagli americani».

In realtà, sebbene la Russia abbia subìto dall’Europa due micidiali invasioni (di Napoleone prima e di Hitler poi), è proprio all’Europa che la sua cultura appartiene ed è con l’Europa che deve ritrovare l’unità. Sa di doverlo fare. A tratti lo vuole, ma è una sorta di amore-odio. La difficoltà di questo riconoscimento reciproco in parte deriva dalla storica separazione dell’ortodossia bizantina dalla Chiesa latina (mille anni fa), quindi dalla frattura portata in Europa dalla Riforma protestante, nonché poi dall’illuminismo. Infine il comunismo in Russia e l’americanizzazione dell’Europa occidentale, dopo il 1945, hanno fatto il resto. Si è scavato un abisso.

L’ARTE DI FIRENZE – La Russia attuale oscilla tra due estremi: fra occidentalizzarsi come nei disastrosi anni di Eltsin e tornare al dispotismo asiatico come oggi. Forse un giorno proprio con Roma, con l’Europa cristiana, la Russia potrebbe ritrovare il filo di un dialogo. In fondo ci siamo andati vicinissimo. Fu nel Concilio di Firenze, nel 1439, che avvenne l’evento storico: la Chiesa orientale e la Chiesa latina ricomposero l’unità. Subito dopo, purtroppo, naufragata e travolta in breve tempo dalla conquista turca di Costantinopoli. Proprio a Firenze, città simbolo della nostra civiltà e ponte verso l’oriente, Fëdor Dostoevskij (lettura fondamentale di Putin) visse qualche tempo e – par di capire – proprio l’amore-odio di cui dicevamo.
È a Firenze che lo scrittore, nel gennaio 1869, completa “L’idiota”, il romanzo celebre per l’idea della bellezza che salverà il mondo. Ma che rapporto ebbe Dostoevskij con la bellezza di cui Firenze è il simbolo?

Lo scrittore fu a Firenze nel periodo in cui era capitale d’Italia. Andava a leggere i giornali russi al Viesseux e passeggiava con la moglie al giardino dei Boboli. Aveva già visitato la città nell’agosto 1862 con il filosofo Strachov. Era rimasto incantato dalla “Porta del Paradiso” del Battistero e tornò a contemplare a lungo il capolavoro del Ghiberti- di cui chiese invano di avere una riproduzione fotografica a grandezza naturale, perché, diceva, «quelle sono le vere porte del Paradiso». Scriverà in una lettera: «Firenze è bella… E quali tesori si trovano nelle gallerie! Mio Dio! Nel 1863 (in realtà era il 1862, ndr) notai la “Madonna della Seggiola“. L’ho guardata per una settimana e soltanto ora l’ho vista. Ma, oltre ad essa, quante altre cose divine ci sono!». D’altra parte quando muore, il 9 febbraio 1881, sul divano del suo studio, Dostoevskij si trova sotto lo sguardo dell’amata Madonna Sistina di Raffaello, un capolavoro del Rinascimento cattolico italiano.

Eppure proprio nell'”Idiota“, il romanzo che completa a Firenze, fa pronunciare al principe Mykin una veemente filippica anti cattolica (e anti gesuitica): egli considera il cattolicesimo «peggio dell’ateismo», dice che «predica un Cristo a rovescio, predica l’Anticristo!». Parole durissime, sorprendenti sulle labbra di quel principe Mykin che è pieno di bontà e di comprensione per tutti e che dovrebbe simboleggiare Cristo stesso. Invece rimane un personaggio non riuscito ed è stupefacente che Dostoevskij non si sia reso conto che i tratti “cristici” che voleva dare al suo Mykin nella realtà si ritrovano perfettamente incarnati nel nostro Francesco d’Assisi. Forse il pregiudizio anticattolico gli impedì di comprendere la vicinanza fra il santo umbro e i monaci russi che egli considerava la Chiesa migliore. Infatti non amava la Chiesa ortodossa ufficiale, così legata all’impero zarista. Amava il popolo russo che sentiva cristiano nel profondo, per le sofferenze patite per secoli. Tuttavia non si può ritenere Dostoevskij uno slavofilo, anche se sentì il fascino di quelle idee. Sentì il bisogno di opporsi alla fascinazione dei russi per l’occidente europeo.

LETTERA AGLI STUDENTI – In una lettera agli studenti dell’università di Mosca, nel 1878, scriveva: «Voi siete semplicemente figli di questa società che adesso volete abbandonare e che è “una menzogna sotto tutti i rispetti”. Ma distaccandosi dalla società e volgendo ad essa le spalle, lo studente russo non va verso il popolo, bensì chissà dove, all’estero, verso un vago “europeismo”, verso il regno astratto di una umanità universale che non è mai esistita in nessun luogo, e così facendo taglia ogni legame anche con il popolo, non riconoscendolo e disprezzandolo, comportandosi come un vero figlio di quella società dalla quale pure si è voluto distaccare. Eppure la nostra salvezza sta nel popolo (questo sarebbe un argomento troppo vasto)… Ma anche il distacco dal popolo, a rigore, non può venire imputato ai giovani». Invece il grande e geniale amico di Dostoevskij, Vladimir Solovev seppe valorizzare il meglio della cultura occidentale e sognò l’unità della Chiesa ortodossa con la Chiesa di Roma. Una sensibilità analoga ebbe un altro genio ortodosso, Pavel Florenskij martirizzato dalla violenza staliniana. Per finire vorrei ricordare un grande artista russo del nostro tempo, il regista Andrej Tarkovskij che fu esule in Italia, proprio a Firenze, e che sognava di fare un film tratto da “L’idiota” e uno sullo stesso Dostoevskij che amava, come amava la sua terra. Ma amava anche – immensamente – l’Italia (non gli Stati Uniti) e non a caso il suo capolavoro, “Nostalghia”, termina con l’immagine della lontana isba russa abbracciata e contenuta dentro la nostra chiesa gotica di San Galgano, che ha il prato per pavimento e per tetto il cielo. Un sogno o forse una profezia.

Fonte: Antonio Socci | Libero.it

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