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Elementari e medie, così lo studio ha lasciato il posto al non-senso

Come mai la scuola è diventata un grande intrattenitore sociale, dove si va a socializzare e lo studio è un optional?

Negli ultimi tempi mi trovo sempre più spesso a lamentarmi della situazione disastrosa in cui versa il sistema scolastico italiano nel suo complesso. Poiché gli anni passano e si accumulano su di me, mi ha sfiorato più volte il pensiero che io mi stia trasformando in un vecchio e lamentoso Catone il censore o in un Cicerone (“O tempora, o mores…!”) che si scaglia acidamente (e sterilmente) contro il degrado della società, rimpiangendo i bei tempi andati. Ed è probabile che sia così!

Tuttavia alcuni fatti oggettivi mi fanno temere che ci sia anche qualcosa di terribilmente reale in quello che dico. Riporto quindi un dato che può essere utile come spunto di riflessione: nella scuola superiore in cui insegno (che per motivi che subito saranno chiari, non citerò) abbiamo appena fatto un collegio docenti in cui il dirigente ha relazionato sull’esito del test di valutazione dell’Effetto scuola, uno strumento che misura “il contributo dell’istituto scolastico al cambiamento del livello di competenze degli allievi”. Detto in parole povere: quanto la scuola migliora le competenze degli studenti che la frequentano.

Bene, la mia scuola gli studenti non solo non li migliora (anacoluto volontario) nelle loro competenze; non solo non li fa uscire uguali a come sono entrati (ma avendogli rubato nel frattempo cinque anni di vita); ma addirittura li peggiora! Avete letto bene: dopo cinque anni passati nel mio istituto, gli studenti escono meno competenti di quando sono entrati (almeno riguardo all’italiano).

L’altro giorno dicevo a un collega, con una battuta che però non si allontana affatto dal vero, che se oggi fosse ripubblicato il famoso Io speriamo che me la cavo, nessuno dei miei studenti delle superiori riderebbe, perché nessuno si accorgerebbe dell’errore (e il libro, uscito nel 1990, raccoglieva temi di bambini delle elementari!). Ma ciò che mi ha spinto a scrivere questo articolo non è quella che, in fondo, potremmo considerare l’ignoranza grammaticale, linguistico-sintattica dei nostri studenti (questo è un problema che in fondo si potrebbe ancora affrontare e risolvere), ma qualcosa di ben più grave e radicale.

Da tempo ormai vado dicendo che la scuola italiana (tutto il sistema scolastico) è diventato nei decenni il regno del non senso, della sistematica diseducazione dei nostri figli e dei nostri giovani. Cioè, non solo non li aiuta in niente, fatte tutte le dovute e sacrosante eccezioni, ma li diseduca in modo sistematico e definitivo (vedi effetto scuola del mio istituto, che non è così peggiore di tanti altri che ho conosciuto, è nella media!).

Voglio argomentare la mia grave affermazione con un altro esempio reale, che attinge alla scuola elementare, quella dove va mio figlio, classe prima. L’altro giorno lo sento canticchiare una canzonetta di Sanremo, “Dove si balla”. Non l’ha sentita in casa, quindi ho immaginato che l’avesse imparata dai suoi compagni. Invece mi dice che gliel’ha fatta ascoltare a lezione la maestra. Allora mi allarmo e provo ad approfondire. Chiedo, pieno di speranza, se la maestra l’abbia fatta sentire per parlarne insieme in classe. Invece viene fuori che quando disegnano, la maestra dice loro di scegliere una canzone, che lei spesso non conosce, da ascoltare e guardare alla Lim. Quindi non seguono solo la canzone, ma ne vedono anche il video su youtube (dunque difficilmente disegneranno!). Parlo con la maestra che conferma tutto, adducendo come giustificazione: “Ma sì, sono canzoni che si sentono in radio…” (come se la radio fosse uno strumento che seleziona le canzoni in base al loro livello di educatività, secondo fasce di età, etc.).

Mamma mia, che Solone! Che vuoi che sia, “sono solo canzonette” (come cantava quello). Non c’è niente di male, fra l’altro le ascoltano già a casa, per conto loro. Infatti sono loro stessi che le scelgono, quindi le conoscono già. Ma in che mondo vivi? Oggi va così e sarebbe sbagliato far finta di nulla. Meglio che le ascoltino a scuola, sennò chissà per conto loro poi cosa fanno…

Sì, sono le obiezioni che mi sono sentito fare e che anch’io mi sono posto. Mi sono chiesto se non fossi io ad esagerare. Ma penso di no e proverò ora a mettere in fila i vari motivi per cui non solo questo fatto non è lieve, ma è anzi gravissimo.

Il contenuto della canzone veicola un’immagine nichilista della vita ed un disperato carpe diem, velato da divertissement. In un passaggio dice “Ma va a capire perché si vive se non si balla”, quindi senso della vita è ballare, fra l’altro ballare forse per dimenticare che lei lo ha lasciato (“Mi piace [ballare] anche se non ci sei più”). È un messaggio educativo, adatto a bambini di sei anni? Per diseducativo non intendo innanzitutto moralmente negativo (fra l’altro il testo contiene una parolaccia, ripetuta ad ogni ritornello), ma soprattutto adeguato in positivo alla loro età come necessità di crescita. Non si tratta qui solo di difendere i nostri bambini da certi messaggi negativi, ma di proporgli contenuti positivi e adatti allo sviluppo della loro personalità e della loro mente a seconda della loro età. Detto in altri termini: i bambini non hanno gli elementi per capire questa canzone, a livello riflessivo-razionale, non perché siano stupidi loro, ma perché il contenuto rimanda ad una dimensione che gli è estranea. Infatti mio figlio non ci ha capito niente.

Per fortuna, dirà qualcuno! Vedi che allora non c’è da preoccuparsi! Invece è proprio il contrario. Il problema, lo ripeto, non è che mio figlio assuma contenuti negativi dalla scuola (anche quello ovviamente), ma innanzitutto che a scuola viva un’esperienza non legata al significato, al senso. Cioè un’esperienza non di studio. Perché studium in latino significa passione e ci si appassiona solo al significato, solo in un’esperienza di significato. Se non c’è una riflessione sul significato (anche alle elementari, certo!) non c’è passione, quindi non c’è studio. C’è solo distrazione e divertimento, svago.

E così, fin dalle elementari, cominciamo a istillare nei nostri figli l’idea che la scuola è un luogo dove svagarsi, dove divertirsi. Uno dei modi per fare questo è certamente l’apprendimento (da cui tutta la didattica dell’apprendimento divertente), ma la scuola non viene percepita innanzitutto come il luogo in cui si studia. Non è lo scopo e la priorità. Invece la scuola è proprio e solo il luogo dello studio, nel senso detto prima, di appassionata ricerca del senso; è il luogo dell’interesse, che non è il divertimento; della passione, che non è il divertimento; dell’attrattiva, che non è il divertimento; dell’impegno per una bellezza da scoprire, che non è il divertimento!

Ora, io ho fatto le elementari trentacinque anni fa. Ovviamente quello che studiavamo era alla portata della nostra mente ancora immatura, ma era chiaro per tutti, anche per i somari, che a scuola si andava a studiare e il sentimento comune era che ciò che si faceva a scuola era importante, quasi solenne, perché era per la nostra crescita. Per questo era vergognoso non sapere le cose, per questo la maestra mandava gli ignoranti dietro la lavagna.

Oggi mio figlio che va a scuola alle elementari, sa che ci va un po’ a imparare, un po’ a divertirsi, un po’ a guardare film (in questi tempi impazza il film Inside out, altro delirio pedagogico!), un po’ ad ascoltare musica. Cioè ad intrattenersi: la scuola è diventata un grande intrattenitore sociale. Esagero? Sono un conservatore incallito e ideologico? Agli studenti della mia classe prima superiore, liceo linguistico, vedendo la fatica che facevano ad entrare nella logica dello studio, ho chiesto: cosa si viene a fare a scuola? Risposta unanime: a socializzare. Solo una ha risposto, per studiare. Una su venti!

Ma torno alla prima elementare di mio figlio. Lui non ha capito il contenuto della canzone, si limita a ripeterlo ritmando la musica dance. Ma questo, come dicevo, non è affatto un bene. Mio figlio non ha (ancora) razionalizzato il contenuto, ma quando lo farà, si ricorderà che quel contenuto lo ha “appreso” alle elementari, senza che ci sia stato fatto sopra alcun lavoro di riflessione, cioè alcun lavoro di conoscenza. Inoltre, se anche non capisce il contenuto, gli arrivano molti altri messaggi: la scuola è un posto in cui sono gli studenti a decidere cosa fare, secondo quello che gli va.

Faccio queste osservazioni perché ho un punto di vista privilegiato: vedo quello che accade alle elementari e alle medie (dove gli altri miei figli passano ore ed ore di supplenza a vedere film casualmente scelti, ovviamente da loro e non dal docente) e poi vedo quello che arriva alle superiori. Così nelle mie classi trovo sempre più studenti abituati a contrattare con il docente cosa fare a lezione! Come spiegare, cosa chiedere, con che strumenti etc. ovviamente senza avere uno straccio di ragione, ma solo perché loro “la pensano così”. All’ultimo consiglio di classe, di fronte al coordinatore dei docenti che diceva ai rappresentanti di classe che la situazione era gravissima e che un terzo della classe rischiava la bocciatura, gli studenti hanno fatto solo la seguente domanda: “Possiamo fare lezioni più divertenti?”. Ma siamo noi che li abbiamo abituati in questo modo!

La scuola, invece, dalle elementari alle superiori, deve essere il regno dell’impegno con la realtà, della passione e del significato, dove ogni cosa che si fa sia occasione di riflessione e giudizio, cioè sia piena di ragioni. In questo senso si può benissimo far ascoltare una canzone di Sanremo ai bambini delle elementari (anche se ci sono migliaia di canzoni più adatte e belle), ma come momento di lavoro e di riflessione, che certamente sarà più distensivo, ma non uscirà (o non dovrebbe uscire) dal regno del significato. Ma per far questo occorre che le ragioni le abbia la maestra. Occorre che la maestra abbia pensato a quella canzone, ci abbia lavorato su, l’abbia scelta per loro, sia stata colpita da una cosa che ha voluto trasmettere a loro. Cioè anche quel momento deve essere sentito dai bambini come qualcosa che è stato preparato per loro, che è voluto, che è loro donato. Intendo questo, quando parlo di regno del significato, perché il significato non si apprende in astratto, non si fa un discorso sul significato, non si dice quanto è importante il significato, ma lo si fa vivere. Che differenza passa tra scegliere una canzone perché mi va e ascoltare una canzone che la maestra ha scelto per me!

Magari, istintivamente posso preferire la prima soluzione, ma l’educazione è proprio l’esperienza in cui imparo a governare il mio istinto, in virtù di un bene maggiore. Imparo a riflettere sul mio istinto, per fare anche di quello un momento di conoscenza. Insomma il significato lo sperimento di fronte alla presenza della maestra e la sua presenza si impone, se e perché è ricca di ragioni e di significato in tutto quello che fa.

E poi permettetemi un’ultima riflessione. Ma che vi ha fatto di male il silenzio? Perché è così impossibile fare un disegno in silenzio? Quale letale malattia potrebbe contagiare i nostri bambini se imparano a concentrarsi nel silenzio su un compito, su un’azione sola alla volta, anziché essere sempre bombardati da infiniti imput contemporaneamente? Poi ci stupiamo se non sanno più concentrarsi su un esercizio per più di cinque minuti, se sono sempre distratti, incapaci di stare fermi sul banco. Già abbiamo musica ovunque: nei bar, al ristorante, nei negozi, a casa, in macchina.

Fonte: Pietro Baroni | IlSussidiario.net

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