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C’è più realismo nell’idealismo del Papa che in tanta retorica con l’elmetto

Su Fanpage si scrive: «Il presidente francese Emmanuel Macron ha in programma oggi un nuovo colloquio telefonico con il leader russo Vladimir Putin nel quale parleranno dei dettagli dell’operazione umanitaria per far evacuare i civili da Mariupol con la partecipazione di Grecia e Turchia. Lo riferisce la Tass, sulla base di quanto la portavoce del ministero degli Esteri francese, Anne-Claire Legendre, ha annunciato al canale Bfm: “La Francia intende mantenere questo canale aperto al dialogo”. L’ultima volta Macron e Putin parlarono il 22 marzo».

Ci sono presidenti che straparlano e presidenti che parlano, speriamo che prevalgano i secondi.

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Su Open si scrive: «Le delegazioni di Russia e Ucraina si incontreranno nella sede della presidenza al Palazzo di Dolmabahce a Istanbul questa mattina intorno alle 9.30 ora italiana. Ciascuna delle delegazioni incontrerà la parte turca prima dell’inizio dei colloqui, secondo quanto ha annunciato il presidente Recep Tayyip Erdogan dopo una riunione di gabinetto ad Ankara. Il presidente turco ha ribadito la sua speranza in un cessate il fuoco. Erdogan ha spiegato di essere in contatto telefonico con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente russo Vladimir Putin. Per il leader turco le cose si stanno muovendo in una “direzione positiva”».

Speriamo che l’ottimismo turco sia realistico.

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Su Dagospia si scrive: «A differenza di Donetsk e Luhansk, a maggioranza russofone, gli abitanti di Mariupol non vogliono finire sotto il giogo del Cremlino. Hanno subìto i bombardamenti, combattuto strenuamente, vissuto la distruzione delle loro case e raccolto i cadaveri in strada: non accetteranno mai la sottomissione a “Mad Vlad”. E allora, che si fa? Le diplomazie sono a lavoro per trovare una formula politica spendibile per Mariupol. La storia offre un ampio campionario di ipotesi, dalla divisione in due di Berlino al modello Cipro. Non si esclude l’opzione di rendere la città zona franca».

Forse si vede una luce alla fine del tunnel.

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Su Strisciarossa Simone Siliani scrive: «Quella di papa Francesco è l’unica voce forte, coraggiosa e libera che si è levata contro la follia della guerra in corso in Ucraina. L’unica leadership morale e politica credibile, autorevole, coerente. Tutto il resto è grigio conformismo e resa culturale alla logica della guerra. Una voce forte perché, pur nel tono mite da tango liso, chiama le cose col loro nome, senza giri di parole come si conviene nelle ore drammatiche: “Il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno ‘scacchiere’, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri”. Così ha detto papa Francesco. Nessuna concessione al “né, né”. L’unica parte da cui stare è quella degli innocenti civili e l’unica parte da avversare è quella dei potenti che ovunque usano il mondo per la loro fame di potere».

Il Papa fa il Papa e solo qualche giornalista, con il cervello riscaldato dall’elmetto d’ordinanza usato in certe testate, può pensare di insegnargli che cosa dovrebbe “invece” predicare. Siliani forse sbaglia se confonde una preziosissima testimonianza orientata a far maturare le coscienze con lo sforzo di trovare soluzioni concrete sul breve termine. D’altra parte un errore simile è comprensibile: alla fine è più realistica un’idealistica testimonianza di tanta retorica oggi in circolazione.

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Sulla Zuppa di Porro Corrado Ocone scrive: «Fa perciò specie che un Partito come quello Democratico, che si presenta continuamente (ipocritamente?) come campione di atlantismo e occidentalismo, disponga un’interrogazione parlamentare in commissione di Vigilanza (e che la Rai prontamente ubbidisca) in cui si contesta un contratto stipulato dal sociologo Alessandro Orsini definendo “assolutamente inaccettabile che le risorse del servizio pubblico radiotelevisivo vengano utilizzate per finanziare i pifferai della propaganda di Putin”».

Ocone è perfetto quando rimprovera a un ex Pci con l’elmetto di usare una antica terminologia parastaliniana per colpire i presunti amichetti di Vladimir Putin. Altrettanto perfetto quando difendende «i diritti» di Alessandro Orsini, ricordando come «per un liberale esiste anche un “diritto alla cazzata”».

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Su Affaritaliani Paolo Alagia scrive: «E per il Partito democratico? Quanti Graziano Delrio ci sono tra le fila dem? L’ex capogruppo Pd alla Camera si è astenuto sull’ordine del giorno mirato all’aumento della spesa militare e ha votato alla Camera, convinto, come ha spiegato in una recente intervista a Repubblica, che “la direzione da prendere sia fermare la corsa al riarmo, non stimolarla”: “Se il contesto in cui ci muoviamo è quello della Difesa europea”, ha argomentato, “trovo folle che ogni nazione aumenti le spese militari ciascuna per proprio conto”».

Fa impressione, nella discussione interna al Pd su difesa e armamenti, la mancanza di voci “pesanti” legate storicamente alla cultura socialista, sia a quella atlantista che ha il suo esponente esemplare in Giuseppe Saragat (in nome della libertà rifiutò qualsiasi legame con l’Unione Sovietica sin dal 1947), sia quella social-comunista che al di là delle influenze staliniane aveva un collegamento con il pacifismo tradizionale del movimento operaio ottocentesco. Oggi nel Pd da una parte c’è il “francese” Enrico Letta, espressione di un saldo rapporto con l’asse Macron-Scholz, poi c’è l’intelligente “americano” Lorenzo Guerini e infine il “sino-papista” Graziano Delrio, direttamente influenzato da Romano Prodi. Tutte persone di una certa qualità. Ma alla fine una discussione tra ex dc.

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Sugli Stati generali Paolo Natale scrive: «Fra gli effetti della globalizzazione che si sono maggiormente affermati, in particolare presso le fasce sociali più deboli delle società liberal-democratiche occidentali (i cosiddetti “perdenti della globalizzazione”), si registra da qualche tempo una sorta di avversione sistematica verso tutto ciò che ha a che vedere con le scelte maggioritarie di cittadini e opinione pubblica, che si sostiene vengano di fatto veicolate dai “poteri forti” e dall’establishment politico-economico».

Ci aspettano tempi particolarmente disordinati nei quali ci sarà bisogno di persone come Natale (e il sito Gli Stati generali) che ragionano invece di limitarsi a indossare un elmetto.

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Su Formiche Joseph Nye dice: «Parlare di nuova Guerra fredda forse aiuta a ricordare il passato ma non a capire il presente. Alla Guerra fredda non si torna perché oggi le due uniche superpotenze veramente globali, Stati Uniti e Cina, vantano un grado di interdipendenza economica e aggiungerei ecologica che a quell’epoca era impensabile».

Il grande promotore del “soft power” contro l’”hard power” talvolta non mi convince del tutto. Però questo invito a ragionare “senza elmetto” sulla fase in cui sta vivendo il mondo è particolarmente condivisibile.

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Su Formiche Roberto D’Alimonte dice: «Sarà un passaggio difficile per il Movimento che su questo punto, e non solo su questo, è spaccato. Di Maio ha già detto pubblicamente che la posizione di Conte è inaccettabile. All’interno del Movimento, e in particolare all’interno dei gruppi parlamentari, Di Maio ha un peso. Il Movimento di Conte è ancora alla ricerca di una identità diversa dal Movimento di Grillo. È in una fase di grande incertezza, direi di confusione. L’aumento delle spese militari è una di quelle questioni sulle quali si deve decidere da che parte stare. Aderire alla proposta del governo significa abbandonare uno dei pochi riferimenti rimasti alla vecchia identità senza essere riuscito ancora a svilupparne una nuova. Il rischio è quello di perdere vecchi elettori senza conquistarne di nuovi. Il che vuol dire, tra l’altro, anche lasciar spazio a Di Battista. Il futuro del Movimento, e la sfida per la sua leadership tra Conte e Di Maio, si giocheranno anche su questo terreno».

La guerra costringe tutti a essere, almeno un po’, più seri. Tutto ciò fa emergere il carattere di un movimento come i 5 stelle fondato su intreccio di demagogia, buffonate, risentimenti e rivendicazioni primitive. D’Alimonte si sforza di cercare qualche razionalità nelle prossime mosse dei grillini, ma è uno sforzo inutile, anzi pericoloso perché rilancia una tendenza disgregatrice che trova alimento nel disordine della società italiana e che è emersa per l’idea ambiziosa e arrogante di Giorgio Napolitano di gestire la vita politica nazionale “dall’alto”. Bisognerebbe invece concentrarsi sull’esigenza di un voto anticipato che ridesse senso e dignità alla politica italiana e, in tal modo, una legittimità indispensabile in un periodo così tempestoso.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Giancarlo Gaiani scrive: «Del resto una guerra prolungata è negli interessi di Washington che vedrebbe indebolirsi rapidamente l’Europa, eterno rivale economico e commerciale degli Stati Uniti e a oggi l’angolo più ricco del mondo. C’è chi parla ormai apertamente di un duello in atto nell’amministrazione che vedrebbe da una parte Casa Bianca e dipartimento di Stato puntare a rafforzare la sfida militare a Mosca e dall’altro il Pentagono impegnato a smorzare i toni bellicosi, impedendo ad esempio che alle armi antiaeree e anticarro fornite alle truppe di Kiev si aggiungano aerei da combattimento, carri armati e artiglierie».

Spesso si ha quasi la sensazione, ascoltando certe discussioni, leggendo certe opinioni, che il pensiero più concreto nelle classi dirigenti occidentali (ma forse anche in Russia) sia quello espresso dai generali. Come se la politica e la cultura (e in parte la finanza) avessero perso i rapporti con la realtà e che solo chi conosce bene cosa possa essere la guerra oggi, sia in grado di esprimere posizioni strategiche e non propagandistiche.

Fonte: Lodovico FESTA | Tempi.it

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