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«Ho ucciso un carabiniere, sua moglie mi ha adottato»: Matteo Gorelli e la sua «storia possibile»

Oggi ha 29 anni ed è un educatore per ragazzi difficili nella comunità Kayròs. Sua mamma e la vedova del militare hanno stretto un patto per salvarlo: «Doveva vedere e ascoltare le vittime»

Arriva puntualissimo di primo mattino in comunità, entra dritto nella «casa arancione» dove ci sono gli adolescenti che gli sono stati affidati. Di solito li sveglia con una battuta e quel suo accento toscano che fa subito simpatia. Sono ragazzi tosti, arrivano dal penale. Molti sono stati messi alla prova dal Tribunale per i minorenni: refrattari alle regole, poco rispetto dell’autorità, bassa autostima. Devono trovare un talento su cui fare leva per riscattarsi e lui, Matteo Gorelli, 29 anni, li sa prendere. È diventato educatore da poco ma ha una empatia particolare. Nel cortile della comunità Kayròs guidata da don Claudio Burgio, mentre prepara le colazioni, sorride: «Ero come loro, li capisco proprio tanto».

Il suo straordinario percorso inizia tanto tempo fa. Riavvolge il nastro, e non senza fatica ricorda.È la notte del 25 aprile del 2011. A un rave party due carabinieri vicino a Grosseto fermano un’auto con quattro adolescenti. Lui, diventato da poco maggiorenne, era il più grande. Il test alle sostanze che risulta positivo, il ritiro della patente, la rabbia feroce che si scatena contro i due appuntati. Uno aggredito a sprangate e calci perde un occhio, l’altro entra in coma farmacologico. Si chiama Antonio, e muore un anno dopo. Matteo ricorda con esattezza la data: «L’11 maggio 2012, il giorno più brutto della mia vita. Ho pensato che il gesto che avevo compiuto, per quando potessi sforzarmi di rimediare, conteneva l’irreparabile». Dal carcere Matteo viene trasferito alla comunità Exodus di don Mazzi e lì arriva la sentenza che lo condanna all’ergastolo: «Avevo negato la vita a un’altra persona, loro la negavano a me. Mi pareva ormai tutto deciso, finito». Il suo cammino doveva ancora iniziare, invece. Da quel momento ha scontato la sua pena (poi ridotta a 20 anni) senza mai passi falsi. Anzi.

Al carcere di Bollate — dove da poco è arrivato il nuovo direttore Giorgio Leggieri — ha preso la laurea in Pedagogia alla Bicocca, 110 e lode. Gode dei permessi di lavoro con cui ogni giorno va da Kayròs, a esercitarsi come educatore. Si è iscritto per una seconda laurea in Economia. E insieme a tre ragazzi (Chiara, Yassa e l’ultimo si chiama proprio Antonio) ha appena vinto un bando della Scuola dei quartieri del Comune: il loro progetto — Attitude Recordz — prevede un nuovo centro giovanile che previene la devianza e dove si insegnerà la musica, la scrittura, il video-making, la poesia. «Stiamo cercando una sede e una sala di registrazione che ci ospiti», si entusiasma Matteo.

Se questo ragazzo è cambiato lo si deve senz’altro alla sua forza di volontà ma anche alle due donne che si sono strette intorno a lui e non lo hanno mollato mai: Irene, sua mamma, e Claudia, vedova del carabiniere ucciso. Il loro è un sodalizio nato sull’orlo dell’abisso che si è spalancato quella notte ed è cresciuto negli anni in un vero e proprio percorso di giustizia riparativa. All’inizio Irene si è avvicinata a Claudia soprattutto per aiutare suo figlio: «Ero gli occhi e le orecchie di Matteo, mio figlio doveva vedere e ascoltare le vittime, per potersi pentire fino in fondo. Lui era recluso in carcere, così andavo io da loro», racconta. E Claudia: «Forse non è un caso che quella notte abbia incontrato proprio il mio Antonio. Credeva con tutto se stesso nel recupero degli adolescenti, per questo faceva il carabiniere. Pensando a come questo ragazzo è diventato oggi, un senso a tutto questo ora lo trovo».

Matteo è un tipo schivo, sobrio, di pochi fronzoli. Vorrebbe che questo articolo fosse intitolato semplicemente: «Una storia possibile». Sta prendendo coscienza del suo valore, cresciuto tra mille sbagli. Alla comunità Kayròs il responsabile don Claudio lo ringrazia: «Riesce a instaurare un legame anche con i ragazzi più refrattari all’autorità; magari ammorbidisce le regole, ma crea con loro un sistema di norme che a quel punto sono condivise e a quel punto nessuno tradisce il rapporto di fiducia». Il suo nuovo progetto è il centro giovanile. Proprio ieri ha costituito la cooperativa e l’ha chiamata Atacama: «È il deserto più arido del mondo e più vicino al cielo, in Cile. Lì dove la vita pare non possa esserci nascono rose che durano un giorno, ma forti e bellissime».

Fonte: Elisabetta Andreis | Corriere.it

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