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ULTIMO BANCO – 77. I centri dell’universo

C’è un paradosso che questo tempo mi ha scavato nella carne: se sei triste, vulnerabile, stanco, lasciati vedere come sei, mostra la ferita ai tuoi amici. In una cultura invasa da immagini di «positività tossica» (corpi e anime sempre in forma, vincenti e perfetti), è diventata una vergogna essere deboli, è una colpa non sentirsi all’altezza. In questi mesi ho visto allargarsi questa ferita nei miei studenti, e di pari passo la loro paura di chiedere aiuto. E ho capito che per educarli a lasciarsi amare, dovevo crescere io per primo in questo, altrimenti non sarei stato credibile. Le cause della loro sofferenza erano solo in parte le stesse, ma il dolore umano, che scaturisce da fonti varie quante sono le storie degli uomini, per non stagnare e marcire, deve farsi strada fino al mare di una nuova libertà, fecondando tutto ciò che attraversa. Lasciarsi amare apre un letto al dolore, sotto o sopra la superficie, e lo fa scorrere attraverso la terra o la roccia che danno all’acqua i minerali senza cui non disseterebbe e feconderebbe. L’ho capito meglio guardando il recente film L’amico del cuore di Gabriela Cowperthwaite, che narra la vera storia di due amici. Il primo è un talentuoso giornalista in carriera, padre felice di due bimbe ma la cui giovane moglie si ammala di tumore; il secondo è un simpatico e malinconico «perdente» in amore e nel lavoro. Entrambi, per ragioni diverse, devono affrontare il dolore fino al capolinea e sono tentati di scendere prima, ma si salvano insieme proprio grazie a ciò che «non» hanno da dare all’altro: sembra assurdo ma è così. L’amicizia crea in loro ciò che, presi singolarmente, non hanno, facendo maturare il coraggio di stare di fronte al dolore senza soccombere, anzi lasciandolo entrare. Quando l’amicizia crea questo supplemento di anima?

L’amico/a del cuore, espressione oggi ritenuta superficialmente sentimentale, è colui che ti offre lo spazio per abitare il dolore, fa «da cuore esterno» perché la pena ha pietrificato il tuo: «ognuno può padroneggiare un dolore tranne chi l’ha» conferma Shakespeare. Accade in ogni amicizia in cui l’altro fa da spazio di carità dove riesci a parlare a te stesso senza vergognarti, e ti aiuta a sciogliere il dolore che non è altro che amore pietrificato. Anche per questo, forse, si dice amico del cuore, uno spazio in cui poter riposare quando non si riesce a farlo dentro se stessi: miseri-corde è infatti chi lascia che il suo cuore venga ferito dal dolore altrui. Quest’amicizia, alla base di ogni relazione duratura (di coppia, parentela, educativa…), ha potere creativo: tira fuori un supplemento di esistenza grazie al fatto che l’altro crea, nella sua carne, uno spazio che dentro di te non hai e il dolore trova finalmente il modo di diventare vita. E così in questi mesi ho riscoperto che la paura di farsi vedere deboli è una ferita che ci portiamo tutti dalla nascita, acuita oggi da una cultura che nasconde il negativo (fallimenti, difetti, dolore, morte) perché lo ritiene una colpa. Mostrando la ferita sono diventato più forte di quando la nascondevo, infatti la mia debolezza ha dato agli amici il coraggio (da cuore) di confidarmi ciò che non avevano detto a nessuno: mentre curavano la mia, guarivano la loro ferita. È come un pezzo di puzzle, il buco non è una assenza ma una possibilità di legame, e l’immagine finale è il frutto di incastri di dolore, quasi invisibili proprio perché perfetti: la creazione è completa proprio perché i pezzi, da soli, sono incompiuti, altrimenti non ci sarebbe «spazio» per legarsi. Questa è la fecondità della vulnerabilità, quella che in un libro ho chiamato l’arte di essere fragili grazie a Leopardi, che definisce «frale» (fragile, da frangibile, che può spezzarsi, come il cuore) sia il pastore errante che trasforma il dolore in domanda vitale (Ove tende questo vagar mio breve? E io che sono?), sia la ginestra che, nella lava pietrificata, fiorisce e manda un profumo che consola il deserto, proprio perché commisera (ha misericordia per) i «danni altrui».

Come accade nel bel film citato, ho scoperto che l’universo umano non ha un centro, ma ne costruisce uno ogni volta che le braccia si aprono, trepidanti, e le mani aperte per chiedere, si scoprono a donare, e nell’abbraccio non si sa più chi dà e chi riceve. Si inaugura, insieme, uno spazio nuovo (con-cordia) dove si può stare, non in quiete, ma in pace. Come scrive il poeta Mandel’stam «l’amore muove Omero e muove il mare» e, in questa «co(m)-mozione» della vita tutta, i cuori che lasciano entrare il «moto amoroso» ridiventano di carne, proprio quando erano di pietra. È strano ma lasciarsi amare è più difficile di amare, anche perché sa amare solo chi si lascia amare. Gli amici del cuore sono i regali del mio compleanno compiuto ieri: a farci invecchiare ci pensa la natura, ma a maturare dobbiamo pensarci noi. E si matura solo per amore, ricevuto e dato.

Fonte: Alessandro D’Avenia |  Corriere.it

 

 

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