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Tre anni lungo i confini tra la vita e la morte

Gianfranco Rosi racconta il suo ultimo documentario nei luoghi del viaggio di Papa Francesco

«Quando ho saputo del viaggio del Papa in Iraq sono rimasto colpito nel profondo, visto che ho passato gli ultimi tre anni in quella zona del mondo per girare Notturno. È un gesto coraggioso e un atto d’amore nei confronti di una terra violentata e poi abbandonata, solo così me lo spiego: un atto d’amore».

Gianfranco Rosi è felice di spiegare a «L’Osservatore Romano» come è nato il suo ultimo documentario che lo ha visto impegnato negli stessi luoghi che da domani saranno visitati da Papa Francesco. E per farlo deve partire da lontano: «Notturno nasce a Lampedusa dove avevo girato Fuocoammare. Lampedusa: la porta d’Europa dove arrivano persone che scappano dalla guerra e dalla fame, un primo punto di arrivo e di passaggio. Anche per questo a Lampedusa non sono riuscito ad avere un incontro, a instaurare un rapporto. Questo mi mancava, l’incontro, ed è ciò che sono andato a cercare in Iraq e nelle terre in cui ho girato Notturno. Perché per me è fondamentale l’incontro: si possono sviluppare delle storie solo grazie al rapporto che si crea con le persone che incontro».

Lampedusa è stata anche la meta del primo viaggio, in qualche modo “programmatico”, di Francesco: un viaggio nelle periferie, proprio come Notturno e prima ancora Sacro Gra, girato sul Grande raccordo anulare. «Il Papa parla di periferie, io posso dire che mi sono sentito spinto di andare in luoghi dove non ero mai stato. E mi ha fatto piacere sentire alcuni che mi hanno detto che dopo aver visto Sacro Gra, avevano “scoperto” Roma, la vedevano ora e la capivano in maniera diversa, avendola vista da questo anello che la circonda tutt’intorno. Per me è importante fare l’esperienza di luoghi, situazioni, condizioni, che prima ignoravo, questo forse permette una più profonda conoscenza».

Le periferie, l’incontro, la memoria, questi i poli della ricerca creativa del regista romano: «Notturno è affidato all’incontro e alle lunghe relazioni scaturite nei tre anni in cui ho percorso questi confini tra la vita e la morte segnati dalla presenza dell’Isis e anche dallo sgretolamento di quella presenza (anche se ora mi dicono che dopo quest’anno di pandemia l’Isis sta riprendendo piede). Quell’incontro che era mancato a Lampedusa l’ho trovato qui: nella madre che piange il figlio torturato e ucciso, nel senso di disperazione per la mancanza di un futuro che lega tutti i personaggi, nel racconto che tiene viva la memoria. Ad esempio la prima scena, il dolore di una madre che perde un figlio è un dolore universale, che non ha più confini. Sono stato per tre anni lungo i confini della Siria, del Libano, dell’Iraq e del Kurdistan e il film segna come una parabola lungo quello che io chiamo il “tradimento della storia” raccontando la tragedia dei destini di quei popoli, dell’identità cancellata. “Dov’è il nostro Dio?” si chiedono i personaggi del film e poi: “Siamo passati dalla colonizzazione alla liberazione dagli americani ma il risultato è sempre quello, un tradimento”. Un racconto che quindi è memoria viva».

Sin dal primo minuto emerge infatti la memoria di un’identità cancellata, dell’alterazione, della violenza fatta a una terra e ai popoli che l’abitano: il film non a caso inizia con una didascalia che sottolinea la falsità dei confini costruiti nel 1913 in maniera totalmente arbitraria, a tavolino, dagli occidentali. «Tutto parte da lì — precisa Rosi —. Per questo ho scelto di annullare il riferimento geopolitico; di ogni scena che si vede non è indicato in quale delle quattro nazioni ci troviamo. Ho voluto abbattere i confini, per rendere il film uno spazio mentale, una struttura accogliente nella quale anche lo spettatore poteva ritrovarsi: queste storie riguardano tutti. Lo spettatore così ha potuto, spero, rivivere la mia esperienza. Sono arrivato e rimasto in questi luoghi per tre anni, e in questo lungo tempo ho incontrato tante persone, che si vedono nel film, con le quali ho creato un rapporto, cercando di entrare in intimità in modo da restituire una “sintesi” della vita da loro vissuta».

Una vita segnata dal dolore. E dalla guerra che è lì, sullo sfondo, con la sua “colonna sonora” incessante, ineluttabile.

«La guerra è sempre presente in ogni scena del mio film, perché poi la guerra non è mai solo dove accade ma anche a chilometri di distanza nella vita concreta delle persone e nel procedere della quotidianità. A volte il dolore era talmente grande da diventare indicibile, penso ad esempio alla scena della madre che ascolta i messaggi della figlia prigioniera dell’Isis. Io non ho raccontato tutto, ho anzi tolto, procedendo per sottrazione: la storia di queste donne, madre e figlie, prigioniere dell’Isis è al di là di ogni possibile parola, rappresentazione. Davanti al suo racconto ero paralizzato, era impossibile realizzare una ripresa. Poi la madre stessa mi ha chiesto di ascoltare dal telefonino i messaggi della figlia. La scena è girata quasi al buio, si vede solo la luce del telefonino, la lacrima sul volto della donna, la voce della figlia… tutto ridotto all’essenza nel rispetto del linguaggio rigoroso del cinema, più eloquente di ogni possibile discorso. Grazie a questo linguaggio lo spettatore riesce veramente ad entrare nelle storie, per questo ho cercato di sparire, di togliermi di mezzo in modo che la storia diventi la storia di chi guarda».

Colpisce infatti l’approccio umile dello stile registico, un procedimento “a levare”, a suggerire senza mai imporre, a mostrare senza dire.

«Esattamente; il senso che ho incontrato in quei luoghi e che ho cercato di trasmettere è il senso dell’attesa e della sospensione: racconto un mondo sospeso che tende verso un futuro sospeso. Per farlo ho quasi dovuto scegliere la via stilistica della sottrazione. Un po’ devo dire che ho sempre fatto così. Nel mio lavoro io non scrivo mai, il testo scritto è quasi infinitesimale. Mi sono lasciato ispirare da un’idea del mio maestro, Charles Bowden che diceva che la prima scrittura di un film deve entrare nello spazio di una scatola di fiammiferi. Se c’è quell’idea centrale tutto fila, ma se tu non hai quella cosa dentro, allora le altre cose non le vedi. Devi avere un nucleo, un fuoco. Questo non impedisce mai l’apertura anche alla sorpresa, all’imprevisto, anzi la favorisce: un film nasce da un momento preciso, da uno sguardo. Come diceva Calvino, la verità è qualcosa che ti passa accanto non c’è più perché è già andata, però quel momento lì è avvenuto e ti fa girare la testa per seguirlo, proprio come un innamoramento. È un attimo ma quel momento lì io l’ho vissuto in tutte le scene del film, con i soldati sul fronte, nel teatro con quella compagnia…».

Questa “via umile” suona come una voce fuori dal coro, come un segno di contraddizione rispetto al cinema più diffuso oggi.

«Ci sono storie che vengono raccontate con molte informazioni e tante spiegazioni, quasi a giustificare il lamento, il risentimento. Io ho scelto un’altra via, perché mi sembra che il mondo sia già talmente pieno di informazioni. La sfida era quindi quella di dare il minimo delle informazioni possibile per creare un territorio accogliente, dare vita a un percorso più emotivo, aperto più alla sorpresa che tendente alla difesa. Riuscire a parlare anche con l’assenza, con il silenzio nello spazio tra le parole. È un film fatto di inizi, per cui ogni scena è un nuovo avvio e tutto tende verso lo sguardo del giovane Alì nel finale: tutto il film è caricato su quello sguardo di trenta secondi che è appunto essenza di un futuro sospeso, che non si conosce. Cosa sarà di Alì? Diventerà un cacciatore, un combattente, una vittima? Se il cinema non apre mondi, prospettive, non mi interessa».

Fonte: Andrea MONDA | OsservatoreRomano.va

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