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L’aborto e la memoria

42 milioni e 400mila bambini in UN ANNO sono stati uccisi con un bisturi nel grembo della loro mamma, e non sappiamo quanti ne sono stati espulsi con i veleni delle pillole. Succede nel 2020. Uno dei primi atti ufficiali di Biden, osannato all’unisono da tutta la stampa mondiale e da tutti ma proprio tutti quelli che contano, è stato finanziare le cliniche abortiste con fondi pubblici. Insomma, nel sentire comune l’aborto è indubitabilmente considerato una conquista, istericamente difeso senza condizioni, addirittura fino alla nascita del bambino.

 

In questo quadro culturale, in cui l’aborto è esaltato e oggettivamente usato come un contraccettivo, mentre se provi a metterlo in discussione ti tirano fuori storie terribili tipo “sì ma se è frutto di stupro e incesto?” (42 milioni e mezzo all’anno?), un sacerdote ha provato a far ragionare la gente a partire dall’olocausto, ed è stato linciato mediaticamente. Eppure il suo ragionamento non fa una piega: l’olocausto è stato una grande tragedia, è avvenuto che qualcuno ha pensato di poter decidere delle vite degli altri. Tutti lo condanniamo chiaramente e senza distinguo, gli dedichiamo giornate della memoria, film, libri, opere di ogni genere, come è giusto che sia, perché non è stato l’unico orrore della storia dell’umanità, ma è stato orrore, ed è vicino a noi nello spazio e nel tempo. Allora, quando ne facciamo memoria, quando ri-cor-diamo, cioè lo rendiamo vivo nel nostro cuore, facciamo che non sia stato invano, cioè che non accada più che sia possibile che qualcuno decida per la vita di un altro.

Perché gridare allo scandalo se un sacerdote, padre Bruno De Cristofaro, dice una cosa così semplice?

Perché soprattutto in una società che si proclama plurale ci sono cose – sempre più numerose – che non si possono dire?

Ci scandalizziamo perché Mengele tracciava una linea a 1,50 metri e stabiliva che chi non arrivasse a quella altezza non avesse diritto di vivere. Oggi c’è chi stabilisce fino a quale settimana i bambini hanno diritto a non essere uccisi, e questo avviene oltre 42 milioni di volte all’anno, 116.164 volte ogni giorno, molto più di un bambino al secondo, e moltissimi di più con le pillole, (che in Italia si possono prendere senza ricetta, anche da minorenni, grazie ministro Speranza).

Eppure Papa Francesco definisce chi abortisce “una persona che chiama un sicario” per liberarsi di un porblema: mi pare dunque che padre Bruno abbia parlato in piena comunione con la Chiesa, senza offendere la memoria dei poveri bambini – e degli adulti e dei vecchi – uccisi nell’orrore dei lager e in tanti altri modi. Non offende neppure le donne, che sono le prime vittime dell’aborto, anche se lì per lì non se ne rendono conto, visto che in questo clima in cui siamo immersi, in questa continua, martellante catechesi del mondo sono spinte in tutti i modi ad abortire, finanziate, aiutate, incoraggiate a uccidere il loro bambino, invece che aiutate a farsene carico se non ce la fanno (ovvio, è molto più comodo per le autorità eliminare un bambino che aiutarlo a crescere).

Certo, anche io con onestà intellettuale mi rendo conto che il paragone può suonare audace alle nostre orecchie, plasmate da anni e anni di propaganda, e poi alcune differenze ci sono: è innegabile che una donna che ha concepito un bambino che non desiderava è chiamata a un grosso sacrificio. La gravidanza e il parto non sono uno scherzo, ed è chiaro che il paragone non è perfettamente calzante. Ma non lo è anche nel senso opposto: quei bambini sono stati chiamati alla vita dalla condotta di un uomo e di una donna, che hanno una responsabilità verso di lui. Non è difficile far sì che quel bambino non sia chiamato alla vita, ma quando c’è, esiste. E’ una persona. Verso di lui io, padre, madre, sono ancora più responsabile che verso chiunque altro: non è vero dunque che l’aborto equivale a un omicidio, l’aborto è più grave perchè la persona che magari volessi uccidere non dipende da me per vivere, non l’ho chiamata alla vita io. L’aborto invece è l’uccisione di una creatura che dovrei difendere, aiutare, accompagnare fino a che sia capace di andare da solo per il mondo, e che ho generato io.

Ieri sentivo le voci delle donne polacche scese in piazza per contestare la legge che rende l’aborto possibile solo in caso di violenza, o di pericolo per la vita della madre: mette sullo stesso piano due vite, quella della madre e del bambino, quindi una legge perfettamente sensata dal punto di vista della filosofia del diritto (non della fede, ma questo è un di più che non possiamo pretendere per legge, non tutti sono forti come la mia amica che ha accolto una figlia nata da una violenza, e ha reso il mondo un posto molto molto più bello grazie a quella bambina meravigliosa; e non tutte sono Chiara Corbella Petrillo o Gianna Beretta Molla, o le tantissime altre mamme anonime che scelgono la vita del proprio figlio prima della propria). Quella donna intervistata in piazza in Polonia (ovviamente alle migliaia della marcia della vita non viene dato un millesimo di quella visibilità, ma pazienza), ha detto: “non voglio far nascere un figlio malato per poi vederlo soffrire”. Ecco, il punto della frase è “vederlo”. Perché, vorrei dirti, cara ragazza ingannata, che quando abortisci tu non lo vedi, ma il tuo bambino viene tagliato a pezzi, quando è vivo. Tu non lo vedi ma lui soffre, e soffre ancora di più perché sente di non essere amato. Soffre perché è dilaniato terribilmente, che è stato poi il motivo per cui il ricchissimo medico abortista newyorkese Bernard Nathanson ha smesso di fare aborti: con un’ecografia ha visto il grido silenzioso di un bambino ucciso nel grembo materno (è appena uscito in Italia il suo libro!). E poi volevo dirti, cara ragazza ingannata, che conosco bambini disabili amatissimi, e dunque felici, forse più di te, e genitori che li amano pazzamente, e che mai e poi mai vorrebbero liberarsi di loro.

Quando una mamma concepisce è una mamma, punto e basta, anche se affitta un sicario, come dice il Papa: questo non cancella il fatto che da quel momento lei è e rimarrà sempre una mamma.

Esprimo dunque solidarietà a padre Bruno, ma soprattutto alle mamme che portano dentro di sé la sofferenza di avere abortito forse perché ingannate o lasciate sole, e gratitudine all’esercito di coloro che si danno da fare perché nessuna donna sia mai abbandonata con il suo fardello, che a volte sembra davvero tanto pesante. La grandezza di una società si vede da come tratta i suoi figli più fragili: questo sarebbe un modo vero di onorare la memoria dell’orrore dell’Olocausto, far sì che mai più nessuno possa decidere della vita di nessun altro, soprattutto dei più deboli, che la comunità si stringa per dare tutti una mano affinché nessuno venga lasciato indietro.

Fonte: BlogCostanzaMiriano.com

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