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Leader corrotti e tribalismo, l’Africa dimenticata si getta tra le braccia della jihad

L’Africa? Sessant’anni dopo le sacrosante ma azzoppate indipendenze, la stiamo perdendo ogni giorno: la perdiamo in quello che davvero dovrebbe contare, la possibilità di una vera democrazia che non sia elezioni truffa, lo sviluppo per un proletariato immenso e non solo per complici rapaci di una mondializzazione ipocrita, la tolleranza, etnica religiosa politica umana. E coloro che fuggono, i senza nome, i reietti, l’estremo limite, il termine della notte? Non dovrebbe essere quella la nostra Africa? Non dovremmo prendere partito per la gente senza scuole e senza scarpe? Baratro nero e spalancato, è il progetto islamista che avanza verso Sud, rode, arruola, infetta, convince. Mentre pensiamo che sia ottusa religione o feroce fanatismo, abile come un sociologo, il Califfato africano capitalizza miseria, corruzione, sottosviluppo, e sempre più sa farsi percepire come rivoluzione. Pensiamo che sia un medioevale residuo per pastori e nomadi analfabeti. La sua classe sociale di reclutamento nell’Africa dell’Ovest è semmai quella dei commercianti.
In Africa il jihad non ha atteso il denaro saudita, e per reclutare non ha bisogno dell’indottrinamento salafita. Si plasma secondo i luoghi, indossa i vestiti delle tribù, sillaba ancestrali culture. La peculiare condizione dell’uomo africano è di agire nell’attesa. Attende delle rivelazioni. Le sue azioni sono invocazioni e incantesimi. Il loro senso è sempre al di là. In Africa l’anno mille arriva ogni anno e ogni volta non succede niente. Non sono che simboli: migrare, impugnare un kalashnikov, scendere in piazza, saccheggiare un centro commerciale.
Appelli angosciati e seduzioni rivolte all’ignoto: altrimenti come potrebbero sopportare il loro tremendo presente? La vita è assurda e violentemente inaccettabile se non fosse aperta all’attesa di una rivelazione. Noi, la gente del Diritto, dovremmo guardare l’espressione di solitudine e di abbandono che si deposita in occhi dall’oscura intensità.
Incandescente come una brace, come sessanta anni fa l’umanità africana, invischiata in questa risacca neocoloniale, sa che si sta elaborando una nuova gigantesca verità e c’è una intensità attonita in attesa di quello che accadrà. Alcuni aspettano con terrore, altri aspettano e basta, altri credono di presentire quello che accadrà.
L’islam moderato, che piace a noi, che ci tranquillizza, l’islam africano delle confraternite, qui è ormai stigmatizzato come complice della corruzione degli Stati, integrato nell’ordine neocoloniale.
Una gioventù che vuole essere radicalizzata per affrontare la vita ha compreso che non è in grado di proporre nuove dimensioni sociali, di benedire rivoluzioni. L’Africa ci sfugge di mano perché l’abbiamo affidata per procura a piccoli vampiri vili, corrotti e sanguinari perché curino i nostri interessi.

La missione in Niger

Un esempio. Il Niger dove, con imbonimento retorico andranno i nostri soldati, a «lottare contro il terrorismo». Sì, sotto un cielo pieno di sole che arrostisce persino l’ombra, schiacciati come in un sacco, ci sono il crocevia dei migranti, i tuareg e i neri, l’uranio e la miseria, il serbatoio di sabbia da
cui nascono come per incanto jihadisti. Chissà se ai ministeri degli Esteri e della Difesa dove hanno pianificato il soccorso della FranceAfrique, che fatica con pochi soldi a tenere in piedi l’impero, hanno prestato attenzione alla notizia di una rara Manipulite africana. Sentite un po’: tra il 2014 e il
2019, 76 miliardi di franchi Cfa, che corrispondono a 116 milioni di euro, in aiuti militari concessi al Niger per fronteggiare gli attacchi dell’Al-Qaeda sahariana sono stati rubati da politici, affaristi e generali.
Ma come: questi sono i nostri valorosi alleati, quelli che vogliamo virtuosamente aiutare a casa loro? Svetta nel malaffare un «imprenditore», genero dell’ex presidente golpista Ibrahim Mainassara. In Africa capitalisti e trafficanti hanno soprannomi affettuosi: il genero del presidente per tutti è «le petit Boubé». Con società fittizie, scatole vuote, gestiva le forniture di armamenti.
Ovviamente si andava alla svelta, niente appalti perditempo: diavolo incombe il pericolo jihadista, urge la sicurezza nazionale! Così tutto veniva sovra-fatturato, oppure con candida risolutezza il materiale veniva pagato e mai consegnato.
Ecco qua la nostra Africa. Nella fauna di 60 anni fa emersero una specie di grandi dittatori, sauri giganteschi superstiti di un feudalesimo colossale in terre preistoriche. Adesso ci accontentiamo di prodotti di alchimia politica di bassa lega, ladri impenitenti, deboli che ostentano forza.
Quando i soldati italiani incontreranno i colleghi nigerini, eternamente male armati, mal vestiti, mogi, che sembrano far la guardia a se stessi, vincitori di molte guerre ma contro altri nigerini, potranno riflettere sugli innumerevoli «petit Boubé» che hanno trasformato in conto in banca gli
aiuti militari ed economici destinati a questi Paesi. Perché la guerra al terrorismo è diventata la rendita economica e diplomatica di questi satrapi senza scrupoli. Rende denaro e consente di reprimere ogni protesta gabbata per «terrorismo».

Le guerre del jihadismo

Dalla Mauritania alla Somalia, dalla Libia al Mozambico, il jihadismo avanza conducendo guerre intricate, localissime, indirette come colpi di carambola. Non si riduce a una formula, è una serie di elementi empirici adattati ai luoghi. Nel Mali punta sui tuareg smaltati di rancore per il razzismo nero dei padroni di Bamako, sui pastori che vogliono la terra, in Niger alimenta e nobilita le guerre nate dai furti del bestiame. Nel Burkina Faso, con spregiudicatezza, dà patenti di guerriglia a gruppi criminali dediti al contrabbando, in Somalia usa il racket e investe i guadagni. La sua topografia sono montagne, paludi, deserti, foreste fitte, luoghi aspri per la contro-guerriglia.
Ma guai a considerarlo un segnale di impotenza. Sopravvivere in questi luoghi impone rifornimenti di cibo, carburante, guide. Bisogna essere inseriti nella realtà locale. Fanno esplodere rabbia e umiliazioni che non trovano sbocco per la brutalità della repressione o si esprimono in modo non violento. Poi, le rivestono di jihadismo. Usano, certo, anche la violenza per farsi ubbidire, ma fanno balenare un paradiso in terra laddove gli Stati hanno fallito per parzialità tribale, incompetenza, corruzione.

L’appoggio della popolazione

Fanno politica insomma, ma non come soggetti esterni, come gli occidentali o i cinesi, ma come attori locali, indigeni. Noi affermiamo di cercare l’appoggio della popolazione. Ma fingiamo di non vedere che i nostri alleati peccano lussuriosamente con massacri, esazioni, violenze comunitarie.
Fornendo reclute al jihad.

L’avanzata in Mozambico

Per capire scendiamo allora in Mozambico, punta estrema della penetrazione islamista, un tempo teatro di una feroce guerra civile. C’era la Guerra Fredda, oggi un altro luogo dove i discorsi dei politici sono coniugati sempre al futuro. Hanno scelto la provincia di Cabo Delgado. Terre titaniche, una immensa mandibola di foresta che si acquatta al confine dell’oceano, il crepuscolo non è il calar della sera ma il crollo del mondo. Qui la maggioranza è musulmana, ma soprattutto, nella geografia locale della povertà, la parte più derelitta e trascurata del Paese. Hanno trovato alcuni anni fa enormi riserve di gas al largo della costa, sono arrivate le Sorelle del petrolio, con investimenti di miliardi di dollari. Ghiotta occasione.
La popolazione non ha visto nulla di questo miracolo di Allah: nelle polverose città della costa, nei canicolari villaggi della selva solo esproprio di terre scambiate a forza con campi lontani, indennizzi mai arrivati, il mare vietato ai pescatori e ferito dalle prospezioni. Cicloni furibondi sommergono la terra con la accanita insensatezza degli elementi, mentre chi protesta subisce violenze e repressione.
Gli islamisti di «al sunnah» hanno lavorato bene, all’inizio, nel 2015, con piccole cellule armate di disertori locali e miliziani kenioti e congolesi. Sono criminali comuni, mentiva il governo formato da ex marxisti convertiti gioiosamente alla gozzoviglia mercantile. Poi i seguaci del Califfo, lavorando sulla disoccupazione e l’avversione per gli stranieri predatori, hanno creato una rivolta, decine di attacchi a caserme e palazzi del governo, hanno preso località come Macomia mettendo in fuga i soldati e alzando davanti alle cineprese le bandiere nere del Califfato dell’Africa centrale.
La risposta del governo? Ha chiesto aiuto come ai tempi di Breznev agli amici di Mosca, adesso si fanno difendere da nubi di bravacci, gli stakanovisti-mercenari della Wagner dotati anche di elicotteri. Costano la metà delle compagnie di ventura sudafricane. Un affarone. Li ha inviati Putin, si ripagherà dell’interessato disturbo con le rendite del gas. La guerra è dura in uno spazio che è come quello di Milton, si nasconde in sé stesso. Alcuni di loro sono stati catturati e decapitati dai jihadisti. Pazienza. A Mosca nessuno farà scandalo.

Fonte: Domenico QUIRICO | La Stampa.it

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