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La tecnica del pomodoro: no al multitasking, ama ogni pezzetto di tempo che vivi

Il tempo è nostro alleato, un dono prezioso, eppure proprio l’illusione di fare più cose contemporaneamente ce lo fa percepire come nemico. Ecco una strategia semplice per arginare la frenesia e per dare valore a ogni cosa.

Essere multitasking sembra un pregio, ma può essere dannoso. Non è una novità, se ne parla già da anni eppure abbiamo fatto finta di non sentirlo (soprattutto noi donne). Continuiamo a telefonare mentre siamo in auto, continuiamo ad avere mille pagine browser aperte, continuiamo a correre in palestra ascoltando un audiolibro. Lo travestiamo da intraprendenza, ma è pura frenesia. Ed è anche un’illusione: il cervello non può fare più cose contemporaenamente, ne fa sempre una alla volta. Dunque, osservandoci bene da vicino, quando lavoriamo svolgendo più attività nello stesso momento, in realtà stiamo saltando da una cosa all’altra concentradoci poco su ciascuna.

Era il 2018 e Forbes proponeva un articolo sui danni al cervello prodotti dal fare più cose contemporaneamente.

Forse avete già sentito dire che il multitasking è problematico, ma nuovi studi mostrano che uccide le tue performance e può anche danneggiare il cervello.  Una ricerca condotta dall’Università di Stanford ha riscontrato che il multitasking è meno produttivo del fare una cosa per volta. I ricercatori hanno anche scoperto che le persone regolarmente bombardate da molti flussi di informazioni elettroniche non riescono a prestare attenzione, ricordarsi le informazioni, passare da un lavoro all’altro con la stessa capacità che possiede chi fa una cosa alla volta. (da Forbes)

Il multitasking è una violenza contro il cervello perché impedisce di entrare davvero nel profondo di ogni singolo argomento. Questo non vuol dire che non ci siano circostanze quotidiane in cui, di necessità, dobbiamo essere attivi su più fronti. Sì, a volte devo cucinare e ascoltare il figlio che mi ripete la lezione di geografia. Però esserci talvolta costretti non significa che la pluralità di fronti attivi sia di per sé un bene o che sia una condotta da valorizzare. Anzi, proprio no.

Che sia un caso che questo delirio da super attività sia legato a un momento storico in cui lo scopo del vivere è sempre più incerto, o addirittura oscurato dal terrore del nulla? Il tempo di San Benedetto si radicò sull’essenzialità di quel «ora et labora» che era un richiamo essenziale al fare, bene, una cosa alla volta e all’alternare le attività e al godersi le pause. Oggi ci vantiamo – e poi ci lamentiamo – di essere super impegnati, illusi di sentirci figli prediletti del Dio Fare. E siamo superficiali su tutto, stanchi di tutto molto presto.

Rimuginavo su questo tema tanto vasto, quanto concreto, e ho incontrato – dopo tanti anni – un’amica che mi ha dato una dritta illuminante. Si tratta di un metodo per lavorare con profitto usando al meglio il tempo: si chiama «tecnica del pomodoro» ed è assai conosciuta, a dire il vero. Io l’ho scoperta ora e penso possa essere un primo gradino, semplice, per ricominciare a custodire il valore del tempo, a darci dei limiti e poi – chissà – magari a spalancare domande sul senso da dare al tempo che ci è dato.

Uno spicchio per volta

Che esperienza facciamo del tempo quotidianamente? Nelle frasi che ripetiamo più spesso c’è il succo di una triste verità: per noi il tempo è diventato un nemico. Non ne abbiamo abbastanza, è tiranno, fugge, corre, scivola via, vola. Un’alterata percezione della realtà ci ha sottratto l’evidenza più semplice: il tempo c’è, il presente è ciò che richiede la nostra presenza. La piccola strategia suggerita di seguito ha lo scopo di forzare il nostro istinto, che si distrae e tende a divagare, per aiutarci – letteralmente – a stare sul pezzo.

La «tecnica del pomodoro» è una strategia per la gestione del tempo ideata alla fine degli anni ’80 da Francesco Cirillo, sviluppatore software ed imprenditore di origini italiane. Il nome deriva dal timer che si usa in cucina di cui esiste una versione a forma di pomodoro.

Si può dire che quel timer cambiò la vita di Cirillo all’università: come tanti di noi, non riusciva a concentrarsi bene durante lo studio e alla fine della giornata aveva l’impressione di non aver concluso niente. Perciò cominciò a riflettere sul modo per ottenere il massimo della concentrazione e arrivò a formulare una strategia semplicissima quanto efficace. Usando un timer da cucina si prefisse delle scansioni di tempo precise in cui «sprofondare» appieno nello studio, alternando questi momenti intensi a delle pause. La forma base di questa tecnica vale per ogni altro tipo di attività ed è sintetizzata da questa scaletta:

• Scegli un’attività da completare.
• Imposta il timer a 25 minuti
• Lavora sulla tua attività senza distrazioni finché il timer non avrà suonato.
• Prenditi una pausa di 5 minuti.
• Ogni 4 “pomodori” prenditi una pausa più lunga di 15-30 minuti.

Semplice? Sì. Troppo banale? Assolutamente no. Se ci osservassimo con onestà, noteremmo che raramente mentre lavoriamo siamo profondamente coinvolti e attenti (c’è da dare una sbirciata ai messaggi, c’è da bere un sorso di caffé, c’è da scambiare una chiacchiera col collega). Darci dei limiti – oggettivi, piccoli, irrevocabili – è un aiuto enorme per arginare lo stress da eccesso di stimoli che ci circonda. Darci dei limiti è il primo passo per innescare una rivoluzione umana più complessiva: accorgerci seriamente di ciò che abbiamo per le mani, conoscerlo fino in fondo, metterci in relazione esclusiva con un contenuto così da innescare domande profonde.

Agganciare l’istante all’eterno

Le nostre abitudini e le mode del tempo in cui viviamo ci consegnano un ritratto umano non troppo rincuorante: zapping, all you can eat, click, chat, tweet. Un’abbuffata di tante cose assaporate poco. Il tempo viene frammentato in istanti veloci; ci illudiamo di fare molto impiegando pochi minuti. Si tratta di una forma estrema di bulimia in cui il cibo che fagocitiamo e non tratteniamo è proprio il succo della nostra vita. Non a caso il male della nostra epoca è l’ansia: non viviamo ciò che accade, rincorriamo il tormento dei nostri pensieri sulle «cose da fare». Poi facciamo corsi per rilassarci e rallentare il ritmo.

Il cristianesimo, anche da questo punto di vista, è un’esperienza che tiene unito ciò che l’uomo, lasciato alla esclusiva tirannia di se stesso, fa esplodere in tanti frammenti impazziti. A ben vedere l’inizio della Genesi è già una perfetta indicazione sul valore e sull’uso del tempo: Dio, pur essendo Onnipotente, non fu multitasking. Assegnò a ogni giorno la sua azione, per potersela poi godere nella sua interezza. Non ha ammirato il firmamento mentre plasmava l’uomo; non ha separato la terra dalle acque mentre ipotizzava quali germogli e semi creare.

E fu sera e fu mattina. Questo ritornello che si ripete nel testo biblico è, forse inconsapevolmente, l’eco lontana dietro la «tecnica del pomodoro»: quando l’essere umano ha delle buone intuizioni che lo fanno vivere meglio, c’è sempre una somiglianza con il Padre. Dio ci ha immersi nel tempo per fare esperienza fino in fondo di ciò che è «finito», l’idolo del multitasking – che ci ha illuso assai bene – non è altro che il tentativo umano di camuffare il finito da infinito (in un certo tempo puoi fare “tutto”). Ed è un misero delirio di onnipotenza.

Scartabellando, ho recuperato una bella omelia di Paolo VI, pronunciata il 1 gennaio del 1961. Era un augurio per il nuovo anno che conteneva un invito a vivere appieno ogni giornata: l’opposto della frenesia contemporanea è la proposta di agganciare ogni istante all’eternità.  Eccone alcuni passaggi (qui il documento intero):

  • Il valore del tempo noi moderni lo conosciamo, perché siamo tutti dei frettolosi e vogliamo tutti guadagnar tempo.
  • I nostri doveri sono quelli che riempiono bene il tempo. Ed è strano, come dicevamo, che l’uomo moderno è tanto avaro del suo tempo e lo calcola con tale precisione e tanta misura e con tanta fretta e ansia di impiegarlo bene, e poi lo dissipa. Quante ore perdute, quanti svaghi inutili, quanta conquista sì di tempo libero, impiegato poi per che cosa? Per perdere il tempo. Una grandissima parte delle nostre occupazioni sono perfettamente inutili, perché non sono nel piano dei nostri doveri e ci fanno perdere quel tempo che abbiamo guadagnato, invece, sopra il compimento di doveri prescritti, di doveri morali e onesti.
  • Noi dobbiamo santificare il tempo che passa; dobbiamo mettere in relazione la nostra vicenda che scorre fatalmente col ritmo astronomico, col ritmo naturale, poi col ritmo delle nostre occupazioni, e ci consuma la vita, mettere in comunicazione con ciò che resta, fare un rapporto tra la fugacità delle nostre cose terrene con la eternità di Dio che rimane sempre.
  • Metti un istante la tua vita in rapporto con Dio, agganciala a quello che non passa, santificala, fa’ che un’intenzione di eternità e una presenza e una protezione di Dio sia su i tuoi passi, guarda che la luce del Signore sia sul tuo sentiero, rettifica le tue intenzioni, rendi buona la tua esistenza con questo breve, brevissimo se vuoi, ma che dovrebbe essere immancabile, rapporto col Signore.
  • A me fa tanta impressione e direi quasi edificazione, alla mattina quando si esce presto, vedere tutto questo formicolìo di popolo che corre, che prende tram, che non ha più pace se non arriva in orario e così l’affanno dell’arrivare in tempo: Dio li benedica, perché questi stanno compiendo un loro dovere. E se un pensiero sacro, un pensiero pio ha aperto questa ansia mattutina, certamente quella sarà una giornata meritoria e Dio benedirà quella fatica anche se non si svolge entro le mura del tempio.

Fonte: Annalisa TEGGI  | Aleteia.org

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