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Il sacerdote rapito. Pierluigi, ostaggio della missione nel suo amato Niger

Un fratello e un padre in mano ai rapitori di speranza nel Niger Era tornato da una settimana dall’Italia. Pierluigi Maccalli era da tempo “ostaggio” del popolo gourmanché di questa porzione del Niger. Il villaggio dove operava dal 2007, Bomoanga, non è menzionato dalla cartine geografiche della regione.

“Case sparse”, così possono essere definite quelle che con i loro pochi cortili si accostano alla Missione dove Pierluigi, padre e fratello, abitava fino alle 22, ora locale, di lunedì 17 settembre. Ostaggio della missione che ha vissuto prima in Costa d’Avorio, poi in Italia per la “ri-animazione” missionaria e poi nel Niger.

Fino a oggi. I contadini, invisibili ai più, di origine frontaliera, in parte aperti all’annuncio evangelico, sono i fattori che lo hanno legato a questa terra di sabbia. Ce lo ha detto fin dal principio: in questa terra di missione bisogna “durare”, se si vogliono cogliere frutti un giorno. Il primo frutto è lui.

Colto nella sua camera, aperta 24 ore al giorno, per accogliere visite, ammalati e bisognosi di aiuto. Non era strano che anche quella notte qualcuno bussasse alla sua porta e che lui aprisse senza alcuna remora malgrado le tensioni esistenti nella zona. Si sapeva che gruppi armati si erano installati e molestavano la gente del posto, impreparata alle vicende legate al terrorismo. Fatalismo, distrazione, abitudine alla sofferenza e altri fattori hanno reso i contadini diffidenti e ancora più chiusi.

C’erano già, da qualche tempo, gruppi di autodifesa, nati per contrastare la criminalità locale, ma nessuno immaginava che una cosa lontana come il jihadismo potesse infiltrarsi tra loro. Pierluigi era appena tornato dall’Italia e sapeva solo vagamente quanto di nuovo stava accadendo nella zona. Si sentiva, come sempre, a casa sua. Se sarà confermato che siamo davanti a un sequestro, si tratterebbe dell’ottavo ostaggio che il Sahel custodisce tra le sue sabbie mobili. L’ultimo in ordine di tempo era stato un operatore umanitario tedesco, rapito lo scorso aprile al confine col Mali, nella stessa grande zona dove operano i gruppi armati. Ma Pierluigi si sentiva già in ostaggio, della sua gente.

Dei bambini ammalati che conduceva quindicinalmente in città e di tutti quelli con problemi di cibo. Ha organizzato “ponti” internazionali per far curare e operare quanti non potevano farlo sul posto. Ma era anche ostaggio dei giovani, degli adulti, delle famiglie, che da tempo aveva cominciato a riunire e accompagnare. Poi aveva costruito la “basilica”, come la chiamava lui. Era la chiesa dei poveri, veri re della sua vita. Per questo chiamava quella povera chiesa d’Africa la “basilica” dei poveri. C’è dunque continuità tra le due situazioni. Lui era ostaggio da tempo, e adesso questo lo possono capire di più proprio tutti. Perché, in fondo, la missione non è altro che diventare ostaggi dei poveri e del Vangelo. Proprio come ha fatto Dio che aveva preso a ostaggio Pierluigi. La speranza si può forse rapire, portare altrove, imprigionare o persino abbandonare. Ma non più, e mai meno, di tre giorni.
Niamey, settembre 201

Fonte: Mauro Armanino | Avvenire.it

 

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