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Libertà d’informazione, se il sottosegretario vuole ancora capire

Qualche riflessione in merito all’intervista che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega all’editoria, sen. Vito Crimi (M5s) ha rilasciato al settimanale diocesano di Brescia e che anche questo sito rilancia. 

La crisi della carta stampata è sotto gli occhi di tutti. In dieci anni le vendite si sono più che dimezzate e gli introiti pubblicitari ridotti. Aziende una volta solide oggi traballano. In tanti hanno chiuso o stanno per farlo. Si dirà: colpa o merito di internet. Oggi chi cerca le notizie le trova in rete o sui social. «A gratis», come si dice. Se i giornalisti e quanti lavorano in questa filiera perdono l’occupazione non c’è da stracciarsi le vesti. Sono tanti i mestieri o le attività che il progresso ha cancellato.

Ma il problema è più complesso e soprattutto preoccupante. Perché l’informazione, quella «nuda e cruda» che ti aiuta a capire cosa accade attorno a te o anche lontano da te, che ti permette di farti idee consapevoli, anche sul piano politico, è il pane di ogni democrazia. Come ci dimostra inequivocabilmente la storia. Ogni forma di dittatura, da quelle larvate a quelle più dure, ha sempre cercato di limitarla, di ingabbiarla, di censurarla. Addirittura di proibirla. E non c’è vera informazione se non c’è chi la fa, ovvero il giornalista. Grazie alla rete ogni cittadino può farsi cronista di ciò che è testimone e diffonderlo in tempo reale. Ma non basta. Il giornalismo è un’altra cosa. È controllo delle fonti, è capacità di raccontare l’essenziale, di fare i necessari collegamenti, di fornire al lettore o all’ascoltatore le coordinate per inquadrare i fatti. Non è neanche questione di Albo (che in Italia abbiamo), ma di professionalità. Certo, poi ci sono i faziosi, i disonesti, i prezzolati. Ma questo è vero per tutte i mestieri, dagli ingegneri ai medici.

Può darsi che tra 5 o 10 anni tutto il settore dell’informazione si riequilibri. Magari i giornali, invece che su carta si venderanno su altri supporti. Magari i cittadini saranno disposti a pagare per poter leggere notizie affidabili su alcuni siti. O a sostenere un giornalismo d’inchiesta che ha per forza dei costi. Nessuno, al momento, sembra aver trovato la ricetta giusta per mantenere in equilibrio economico aziende che producono notizie non specializzate. Ne sanno qualcosa il centinaio e passa di settimanali diocesani, che da tanto tempo presidiano soprattutto i territori più periferici. In questi anni hanno tagliato dove possibile i costi, hanno ridotto all’osso il personale, ricorrendo anche ai contratti di solidarietà o ai part-time, hanno investito in tecnologia per rimanere al passo con i tempi, hanno raddoppiato l’impegno per offrire un prodotto di qualità, per essere presenti sul web con un’informazione continua. Per contro hanno visto aumentare i costi della carta e della stampa, oltre a quelli postali, con la beffa di non riuscire più a far arrivare puntualmente nelle case, anche in quelle più lontane e sperdute, una copia del settimanale (grazie alla consegna a giorni alterni voluta dalle Poste). E con i contributi statali, previsti dalla legge (la 416/1981 poi integrata dalla 67/1987 e dalla 250/1990) ridursi di anno in anno fino quasi a scomparire.

 

 
È in questa situazione agonizzante e dopo ripetuti appelli anche alle massime autorità dello Stato, che il Parlamento, nella passata legislatura, ha approvato una riforma del sostegno all’informazione (la  198/2016) che finalmente andava nella direzione di quanto il mondo dei settimanali diocesani auspicava da tempo. Nessun finanziamento pubblico ai giornali di partito, ma sostegno reale a chi informazione la fa davvero, a chi vende copie e abbonamenti veri sul territorio, a chi dà lavoro a giornalisti (e non fa i giornali con il copia e incolla), a chi investe nell’innovazione e nel digitale.

Quella riforma, che dovrà andare a regime da quest’anno, non risolve tutti i problemi, è ovvio. Ma dà un po’ d’ossigeno ad aziende ormai dissanguate aiutandole a riorganizzarsi, ad inventarsi forme nuove di comunicazione e di giornalismo. Ora, proprio nel momento in cui, stremati, pensavamo di tagliare quel traguardo, che per anni ci era sembrato un miraggio, arriva il nuovo sottosegretario all’editoria e paventa di ributtare all’aria tutto. Anche se questo non è scritto nel famoso «contratto» da cui è nato il governo Conte.

Il Movimento cinque stelle è stato da sempre un fiero oppositore del finanziamento pubblico all’editoria. Una posizione che si giustificava soprattutto per gli abusi che il mondo politico aveva fatto di quella legge. Abusi però, già cancellati e resi impossibili dalle nuove regole. Comprensibile, quindi, che il nuovo sottosegretario pentastellato con delega all’editoria sia molto prudente e voglia rendersi conto bene dello stato del settore. Questo glielo concediamo volentieri. Giri l’Italia dei paesi e delle piccole città, sfogli le migliaia di pagine che i settimanali diocesani sfornano regolarmente e si renderà conto del prezioso servizio che rendono alla società civile. Ma non potremo accettare passivamente che in nome di pregiudizi ideologici venga cancellata o neutralizzata (magari non finanziandola) una legge che favorisce nel nostro Paese l’effettivo esercizio della libertà d’informazione.

Fonte: Claudio TURRINI | ToscanaOggi.it

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