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La forza del buonumore. Dal Siracide a Lewis

Viviamo in un contesto culturale così ideologico che si privilegia l’idea all’evidenza, il virtuale al reale, il giudizio critico all’arte. Quando si parla di forma sembra che si stia parlando di qualcosa di sovrapposto alla sostanza. Forma e sostanza creano, in realtà, un unicum indissolubile. Così come è vero che i contenuti della poesia non si possono slegare dai versi e dallo stile che lo veicolano, allo stesso modo la profondità di una persona si colgono dal suo sguardo e dalla sua voce.

Forma è anche sinonimo di carnalità, di sorrisi, di abbracci, di calore umano, di cordialità, di affabilità. Forma è spesso sostanza, come in una statua in cui la forma dell’opera veicola lo stesso contenuto rappresentato, coincide con esso in modo indissolubile. La parola «forma» era in latino sinonimo di «bellezza» tanto che l’aggettivo «formosa» voleva dire «bella».

Ne La formula del buonumore. Con i 5 rimedi contro la tristezza (Ares edizioni) il sacerdote Carlo De Marchi, studioso dell’affabilità in san Tommaso e san Francesco di Sales, traccia un percorso accattivante avvalendosi di testi di grandi autori e intellettuali, da Tommaso Moro a Chesterton, da Francesco di Sales al cardinale Newman, da papa Benedetto XVI a papa Francesco.

Anche la Bibbia ci mette in guardia dal pericolo di lasciarsi prendere dalla tristezza. Leggiamo nel libro del Siracide: «Non darti in balia della tristezza/ e non tormentarti con i tuoi pensieri./ La gioia del cuore è la vita dell’uomo,/ l’allegria dell’uomo è lunga vita». Quali rimedi offre san Tommaso d’Aquino? Il primo è darsi ad un «piacere buono» (cucinare, partecipare ad un banchetto, etc.), il secondo è il pianto, terzo è la compassione degli amici, quarto la contemplazione della verità, quinto ed ultimo «un bagno e una buona dormita».

Sono fondamentali il buonumore e la simpatia tanto che Erasmo da Rotterdam scrive riguardo all’amico Tommaso Moro: «In lui il volto corrisponde al carattere perché manifesta sempre simpatia e amicizia, ma anche l’abitudine di prendere occasione da un nonnulla per ridersela. In altre parole, è più portato al buonumore e alla festevolezza che ad assumere atteggiamenti gravi e solenni, pur non concedendo assolutamente nulla a sciocchezze sconvenienti e volgari».

La gioia di vivere, la letizia, i desideri belli, l’affabilità sono espressione dell’amore che Dio ci comunica ogni momento. «Essere affabili» scrive De Marchi «significa mostrare un’apertura sincera e sorridente nei confronti delle persone che ci troviamo intorno. Vivere una socievolezza che non è ancora amicizia ma è un primo passo necessario verso l’amicizia». E ancora: «Essere capaci di rapporti amichevoli con chi ci sta intorno non è un optional nella vita di una persona». La cordialità nasce dalla convinzione che esiste qualcosa che ci accomuna, che ci lega agli altri e che è più importante di tutte le possibili differenze. Scrive C. S. Lewis che «la linea più breve per unire due persone è il sorriso».

Ecco allora alcuni semplici suggerimenti quotidiani che ci permettono di rispettare l’altro. Il termine «rispetto» deriva dal verbo latino respicio che significa «guardo» o «riguardo». Il primo modo per trattare con un altro è guardarlo e creare con lui un rapporto personale, già a partire dal saluto e dal primo incontro. Scrive Romano Guardini: «Un saluto amabile è già un’accoglienza, anche se breve. È un rapido entrare e uscire, che però conforta. E così pure una conversazione: la porta attraverso la quale si fa entrare l’ospite è ascoltarlo e comprenderlo».

Il contrario dell’affabilità è l’indifferenza che caratterizza così tanti rapporti umani, quelli nelle grandi città come anche quelli dei paesi quando l’incontro con l’altro non è apertura spalancata. Dire sempre la verità, ma con rispetto: ecco un altro indice dell’affabilità. «Trattare bene una persona non vuol dire dirle sempre di sì, e ancor meno lodarla quando non lo merita» (De Marchi). Dobbiamo imparare a parlare bene degli altri. Anche in questo caso il consiglio non deve essere frainteso con la mistificazione della realtà. Parlare bene significa cercare il bene in chi incontri e non concentrarti sempre sul male altrui. Se cercherai il male negli altri, lo troverai, così come pure se cercherai il bene. E noi siamo soliti trovare negli altri quello che siamo abituati a trovare in noi stessi.

Mi piace concludere con la preghiera per il buonumore, tradizionalmente attribuita proprio a Tommaso Moro, in realtà scritta da Thomas Henry Basil Webb: «Signore, donami una buona digestione/ e anche qualcosa da digerire./ Donami la salute del corpo/ e il buon umore necessario per mantenerla./ Donami, Signore, un’anima semplice/ che sappia far tesoro/ di tutto ciò che è buono/ e non si spaventi alla vista del male/ ma piuttosto trovi sempre il modo/ di rimetter le cose a posto./ Dammi un’anima che non conosca la noia,/ i brontolamenti, i sospiri, i lamenti,/ e non permettere/ che mi crucci eccessivamente/ per quella cosa troppo ingombrante/ che si chiama “io”./ Dammi, Signore, il senso del buon umore./ Concedimi la grazia/ di comprendere uno scherzo/ per scoprire nella vita un po’ di gioia/ e farne parte anche agli altri».

Fonte: Giovanni Fighera | Tempi.it

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