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​Demenza digitale: studi sugli effetti collaterali della dipendenza da internet

«Chi si allena meglio con le mani è allenato anche mentalmente, la mente impara a contare a partire dalle proprie dita. Chi si allena a contare e giocare con le mani da bambino sarà più bravo in matematica da grande. È connaturato nell’essere umano imparare attraverso l’uso del proprio corpo, mentre il movimento che si fa su un ipad non attiva alcun tipo di intelligenza mentale se non quella di svolgere un compito sull’ipad». Queste parole le ha pronunciate il professore tedesco Manfred Spitzer durante una conferenza per la presentazione del proprio saggio dal titolo inequivocabile Digitale Demenz (demenza digitale, saggio in lingua tedesca e ancora non tradotto in italiano). Già qualche anno fa la Agi/AvgVG, azienda specializzata in ricerche su internet, lanciava l’allarme: i bambini di oggi sanno scrivere sul computer, navigare su internet ma non sono capaci di allacciarsi le scarpe da soli o di andare in bicicletta.

Nel libro Digitale Demenz, il noto neuroscienziato fornisce un’ulteriore, diretta e allarmante illustrazione degli effetti a lungo termine che i media digitali hanno sulle nuove generazioni. Attingendo a statistiche, a dati derivati dalla risonanza magnetica e da modelli di reti neurali, Spitzer arriva a concludere che «i media digitali sono dannosi per l’apprendimento e per lo sviluppo mentale dei bambini».

Come Nicholas Carr prima e Maryanne Wolf poi, Spitzer ci parla del concetto di plasticità cerebrale per suggerire i molti modi in cui l’uso dei media digitali deforma la nostra capacità di cognizione. Il risultato della sua ricerca ispira ben poca fiducia nelle future prestazioni cognitive delle generazioni di nativi digitali: «Saranno difficilmente in grado di ricordare alcunché; la maggior parte dell’energia sarà spesa per lo scambio di brevi messaggi sociali o per intrattenimento e svago più che un vero e profondo impegno per la conoscenza».

Spesso i sostenitori dell’utilità indispensabile di gadget digitali per l’apprendimento nelle nuove generazioni accostano il cervello a un computer. Ma secondo Spitzer non c’è niente di più diverso. Se un computer perde un pezzo it crashes, non funziona più. Il cervello funziona in maniera del tutto diversa da una macchina. Il cervello non può “crashare”, come si usa dire in gergo per i device digitali, piuttosto subisce quello che i medici chiamano graceful degradation (dolce regressione). A volte, in caso di malattie, la regressione è devastante, ma il cervello è un organo capace di funzionare anche senza intere parti, al contrario di un computer. Ad esempio, in un famoso caso, una giovane ragazza francese dopo un’operazione chirurgica d’emergenza era rimasta priva dell’intera metà sinistra del cervello, eppure manteneva ancora intatte tutte le sue capacità mentali, addirittura al punto di poter parlare fluentemente due lingue.

«Se togliessimo mezzo cervello a un adulto, morirebbe all’istante — ricorda Spitzer — ma se sei abbastanza giovane e ovviamente fortunato, con una riabilitazione giusta dopo un paio di anni non noti neppure la differenza». Il cervello ha infatti la capacità di creare nuove connessioni, per cui anche senza quei centri dediti all’elaborazione del linguaggio, come nel caso della ragazza in questione, se ne può reinventare di nuovi. Non solo, al contrario di un computer il cervello non ha limiti di capacità di storage. Più cose ci sono nel cervello «più ce ne metto», ricorda il neuroscienziato. Ad esempio è molto più facile imparare una terza lingua se ne conosco già due piuttosto che solo una. Ancora più facile se ne conosco cinque. Il cervello è fatto di connessioni, non di informazioni, e sono le connessioni a permettere la vera conoscenza.

Allora si capisce come Knowledge on demand for ubiquitios learning, un progetto finanziato per il settanta per cento dall’Unione europea, è una mera assurdità. Dice lo scienziato: «Non esiste una conoscenza on demand. La conoscenza fa parte di noi stessi, è quello che applichiamo noi, quello che può essere on demand è l’informazione, i dati, ma per accedere a quei dati occorre sapere cosa si sta cercando». Per lo stesso motivo non può esistere un Outsourcing of knowledge, un’immagine fuorviante spesso citata da chi si occupa di nuove tecnologie. La metafora hardware non può funzionare per l’uomo. Se infatti “metti” meno cose nel cervello non stai lasciando spazio per nuove informazioni, ma stai precludendo la possibilità di impararne nuove.

Una delle conseguenze di aver smesso di affidarci al cervello umano pensando di poterlo sostituire con quello digitale è la recente scoperta di una nuova patologia: la Google sickness. Molte persone sono indotte a pensare che internet abbia reso più facile fare una diagnosi anche in assenza di un medico. Ma nuove ricerche suggeriscono che l’uso di Google per le diagnosi di malattie può impedire un trattamento medico adeguato. La Google sickness compare in due forme principali: l’auto-positività, ovvero sovrastimiamo i rischi di cadere preda di una malattia e l’auto-negatività, dove al contrario sottostimiamo la possibilità di poter soffrire di malattie molto comuni.

Lo studio ricorda alle persone che se cercano di ricevere assistenza medica da internet, sono limitati dalle proprie preoccupazioni, nonché dalla natura random (casuale) del web. A differenza di precedenti studi sulla demenza digitale il lavoro di Spitzer è radicato nelle neuroscienze, e la demenza, ricorda il professore, non è una diagnosi, ovvero oggetto di interpretazione ma è la descrizione oggettiva di un fenomeno: non una mera perdita di memoria, ma un lento regredire delle funzioni intellettive. La parola stessa semplicemente denota le funzioni mentali compromesse, con una vasta gamma di sintomi che hanno effetto sulle funzioni cognitive, come la comunicazione, il linguaggio, l’attenzione, il ragionamento e la percezione visiva.

I risultati di questo studio portano a concludere che i cambiamenti operati nel cervello in caso di esposizione sin dalla tenera età ai media digitali sono modifiche permanenti, come quelle provocate dal morbo di Alzheimer, per esempio.

Fonte: Cristian Martini Grimaldi | L’Osservatore Romano

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