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Sui social violenza verbale. Un dialogo senza guardarsi negli occhi

 

Pochi giorni fa i genitori di T., la bambina di sedici mesi morta nell’Aretino perché dimenticata in auto sotto al sole, hanno dovuto chiudere i loro profili Facebook perché sommersi, dopo la tragedia, da una valanga di insulti. La Procura di Arezzo ha chiesto alla Polizia postale una valutazione dei messaggi: dal “Dovevi lavorare di meno e pensare di più a tua figlia” al “Non sei una madre” fino al “Dovresti ucciderti”. Potrebbero esserci gli estremi per un’indagine per minacce, diffamazione, addirittura per istigazione al suicidio. Non è certo la prima volta che una bolla opaca di aggressività esplode sui social. In una circostanza come quella di Arezzo però il fenomeno si mostra in tutta la sua valenza abnorme. Insulti a due genitori provati dalla peggiore delle tragedie, a una madre annientata dall’esito di una tremenda amnesia. Che cosa porta tanti a parlare con leggerezza o addirittura a offendere sui social, da dove viene questa oscura aggressività? Il caso di Arezzo è il vertice della drammaticità, ma senza arrivare a tanto basta andare sulla pagina Facebook di un giornale per notare, nelle reazioni alle notizie, una gran fretta di dire la prima cosa che passa in testa, di emettere giudizi sommari, di commentare su argomenti che evidentemente non si conoscono, fino a arrivare al sarcasmo aspro o agli insulti. Se c’è un naufragio di migranti spesso non manca quello che dice: «Lasciateli andare a fondo». E così via. Gli interventi pacati, meditati, articolati, non sono molti. È come un muro il social network, su cui incidere i propri graffiti. D’istinto: ciò che sale, anche, dalle viscere. Forse la ragione sta nell’avere ormai tutti sempre in mano uno smartphone, e dei momenti vuoti? Sul tram, sul treno che riporta a casa si legge e si digita in fretta. Magari è un modo per “esserci”, per sentirsi parte di una comunità. Ma, e l’aggressività, e la spietatezza, come nel caso della bambina morta? Forse una oscura frustrazione, una non cosciente rabbia verso l’universo, che sbocca nella piccola “libertà” di scrivere qualcosa senza apparire. Senza firmare con nome e cognome, senza essere, almeno in molto casi, identificabili. Perché di persona, certe cose non si oserebbe dirle. Di persona, ci si sente responsabili di ciò che si dice. E soprattutto si guarda l’altro negli occhi, e i suoi occhi ci guardano. E forse, al di là degli insulti, è proprio questa vaghezza, questa collettiva irresponsabilità che fa, a volte, dei commenti sui social un vento di parole vuote.

Fonte: Marina Corradi | Avvenire.it

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