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Fine vita. Garavaglia: con la nuova legge «contenziosi medici infiniti»

Secondo l’ex ministro , oggi a capo del polo ospedaliero romano Idi, la norma sulle Dat «è inutile e dannosa»

La legge sul fine vita? Meglio sarebbe stato non farla proprio, ma almeno la si cambi. Già ministro della Sanità e oggi presidente di un grande polo ospedaliero romano come l’Idi, Mariapia Garavaglia vanta anche una lunga militanza nel Pd. Proprio il partito che, con M5S, sta portando avanti il disegno di legge con più determinazione. «Ma questa legge – dice – non l’avrei voluta, la pressione per ottenerla mi preoccupa».

Cosa teme?
«Lo scivolamento nell’ideologia, perché con tutta evidenza non si ha in mente il contesto del nostro Sistema sanitario nazionale, che è di impianto universalistico, aperto a tutti e che a tutti mette a disposizione gli stessi strumenti diagnostici e terapeutici. Abbiamo poi un Ordine dei medici che di recente ha rinnovato il proprio Codice deontologico, valorizzando i compiti del medico nei confronti di tutti i cittadini. Ora questo stesso medico viene invece deresponsabilizzato burocratizzando il suo rapporto col paziente e i familiari».
Cosa potrebbe succedere nell’applicazione della legge sulle Dat?
«È facile immaginare un contenzioso infinito. Poche settimane fa è stata approvata un’ottima legge sulla responsabilità dei medici con la quale si è cercato di mettere una toppa su tutti i casi nei quali il rapporto con il paziente diventa ambiguo o conflittuale. Introdurre con un’altra legge nuovi elementi di incertezza e opacità non mi pare una buona idea».

Però si sente dire che ci vuole una legge per uniformare convinzioni diverse su temi delicati. È così?
«Mi fido più di medici preparati che di una legge che precisa cos’è e cosa non è cura o accanimento e che del consenso informato fa una pratica burocratica e non una relazione che richiede tempo e non commi di legge. Si pensi piuttosto a formare i medici alla buona comunicazione. Perché ogni volta che si trova davanti a un compito difficile lo Stato si rifugia in una nuova legge? È una vera ossessione normativa».

La nutrizione è diventata “trattamento sanitario”. Cosa ne pensa?
«Che è molto pericoloso: non vorrei che arrivassimo al punto in cui visto che idratare e alimentare costa si pensi di aiutare il Sistema sanitario a risparmiare… Ci sono patologie soprattutto degli anziani che richiedono una speciale idratazione del paziente, ma se si dice che questo semplice gesto è un atto medico chi garantirà che non vengano lasciati morire di sete?».

Cosa si deve fare per migliorare questa legge?
«Va introdotta l’obiezione di coscienza. Quando c’è di mezzo la vita e la morte non si può chiedere ai medici di ridursi a semplici esecutori di un dettato normativo. Ma è indispensabile lasciare uno spazio per l’obiezione anche alle istituzioni sanitarie d’ispirazione religiosa, che non sono solo cattoliche. Inoltre, ai cittadini va dato il diritto di scegliere tra strutture che accettano ciò che prevede la legge sulle Dat e quelle che garantiscono la coerenza con i propri princìpi. È una questione di libertà. Perché comprimerla?».

Tra gli argomenti che si portano a favore di questa legge c’è anche il fatto che l’Italia dovrebbe allinearsi a diritti già riconosciuti da altri Paesi, anche appena oltre i nostri confini…
«E perché mai le regole altrui dovrebbero valere anche da noi? Nessuno pensa che invece potremmo essere più avanzati con il nostro Sistema sanitario, ispirato a un rispetto per la dignità di ogni persona che ci viene invidiato nel mondo, Stati Uniti in testa? Invece di essere orgogliosi del nostro umanesimo solidale desideriamo l’individualismo altrui. Questa sì che è bella…».

Cosa risponde allora a chi sostiene che occorre una norma che garantisca la libertà di scelta?
C’è un problema di emotività e di comunicazione mediatica, che enfatizza la libertà personale. Ma la si invoca quando vediamo i casi drammatici che ci vengono proposti: se invece pensassimo che tutto questo apparato ci riguarda giudicheremmo in modo meno astratto. La libertà d’azione sulla vita umana misura tutte le altre. Non si può scrivere il diritto sulla base di ciò che piace o non piace, perché così si imbocca una china pericolosissima che porta presto o tardi a eliminare quello che ci disturba, come la disabilità o la malattia grave».

E a situazioni estreme, come quella di Fabo, che risposta va data?
«Non si può far sentire nessuno abbandonato, solo, senza speranza. Non potendo provvedere a tutto lo Stato deve stabilire le priorità di intervento: e tra queste c’è sicuramente una cura massima per il fine vita, con l’obiettivo di togliere ai parenti ogni pensiero che non sia affettivo. Intendo dire che le persone più sofferenti devono sentire attorno a sé l’attenzione e la cura di tutta una comunità, che ha fatto la scelta di dargli non la “libertà di morire” ma quella di vivere. Siccome la salute è un bene inviolabile si rimuova ogni ingiustizia che la rende esposta a violazioni».

Se entrasse in vigore così com’è che impatto potrebbe avere la legge sul fine vita?
«Le generazioni di medici oggi in servizio hanno ben chiara la loro missione professionale. Con norme come queste però si mette in circolazione una cultura che considera tutto acquisibile se e come lo si desidera: un bambino, un utero, la stessa morte. Va messa in guardia l’opinione pubblica sulle illusioni e le insidie di questa idea, che pone la vita sul piano dei beni disponibili a richiesta. Una mentalità simile impone al medico di adeguarsi a ogni richiesta, alla quale finirà per prestare ascolto più che alla propria “scienza e coscienza”. Ma è questo che si vuole?».

 Fonte: Francesco Ognibene Avvenire.it

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