Populorum progressio non è stata solo l’enciclica che ha segnato il pontificato di Paolo VI nella sua valenza di aggiornamento della dottrina sociale della Chiesa attraverso il richiamo ai temi della povertà, dell’ingiustizia, dello sviluppo. Anche negli anni successivi alla pubblicazione, non pochi passaggi del documento con cui la Chiesa «esperta in umanità» intendeva offrire una «visione globale dell’uomo e della sua umanità», si sarebbero rivelati profetici: dall’insistenza sullo sviluppo, nuovo nome della pace (anche in un mondo globale che non può essere solo un immenso mercato), al nesso con l’educazione (che aiuta a maturare consapevolezza). In questa prospettiva la Lettera «ispirata dall’amore cristiano», conseguì certamente l’intento – dichiarato già da papa Montini mesi prima della pubblicazione – di «orientare risolutamente sia la Chiesa che l’opinione pubblica». Se è vero che non mancarono reazioni sconcertate negli ambienti del capitalismo liberale più accentuato, messi sotto critica nei sistemi tesi a considerare «il profitto come motoreessenziale del progresso economico» e subito pronti a contestare il dettato sulla proprietà privata che per Populorum progressio «non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto», e se è pur vero che ci furono facili strumentalizzazioni di alcuni passaggi – come l’accenno all’insurrezione rivoluzionaria fonte di ingiustizie e squilibri, ma non illecita «nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese» – è altrettanto sicuro che il monito di Paolo VI, «I popoli della fame interpellano in modo drammatico i popoli dell’opulenza» e «La Chiesa trasale davanti a questa situazione e chiama ognuno a risponderecon amore», mobilitò larghe frange del mondo cattolico.

Senza voler ridurre il marcato tratto sociale diPopulorum progressio, non se ne può tuttavia ridurre l’altrettanto forte impronta umanistica ed educativa di segno cristiano. Non a caso, resa nota il 28 marzo, recante la data del 26, giorno di Pasqua, fu chiamata dall’economista François Perroux l’enciclica della Risurrezione. Con questa scelta il Papa indicava la fonte primaria del suo messaggio, nella consapevolezza – parole dell’enciclica – che «senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo». Insomma, un insegnamento quello di Montini, che, ben oltre il necessario aggiornamento della dottrina sociale, metteva in relazione anche la diffusione della povertà e la necessità di graduali ma non timide riforme, di progressive modifiche nelle stesse strutture nella Chiesa chiamata a mettere in pratica tutto il Vangelo. L’anno dopo, davanti ai trecentomila campesiños colombiani riunitisi per la Messa, nel viaggio a Bogotà, Paolo VI tornava sì sulle soluzioni additate per superare i problemi legati alle ingiustizie nel pianeta, ma esprimeva il senso della sua presenza e del suo ruolo con chiarezza: «Ci inchiniamo davanti a voi e vogliamo ravvisare Cristo in voi quasi redivivo e sofferente (…) noi vi amiamo! Come pastori, cioè come associati alla vostra indigenza e come responsabili della vostra guida, del vostro bene, della vostra salvezza». E continuava: «Noi conosciamo le condizioni della vostra esistenza (…). Noi stessi abbiamo patrocinato la vostra causa nella nostra enciclica sul Progresso dei Popoli. Ma oggi la questione si è fatta grave, perché voi avete preso coscienza dei vostri bisogni e delle vostre sofferenze». E concludeva: «Noi continueremo a difendere la vostra causa (…) a denunciare le inique sperequazioni (…) e parimenti continueremo a perorare la causa dei Paesi bisognosi di fraterni aiuti (…). E cercheremo noi stessi, nei limiti delle nostre possibilità economiche, di dare l’esempio (…). Ma lasciate, figli carissimi, che annunciamo anche a voi la beatitudine, che già vi compete; la beatitudine della povertàevangelica».

Fonte: Avvenire.it