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Figli «comprati», la fiaba svela la realtà

Con la favola «Non mi vendere, mamma!» la scrittrice femminista Barbara Alberti smaschera l’ipocrisia diffusa sull’utero in affitto.

 

«No problem, cocca! Per fortuna ci sta Lillo tuo. Se fai la brava abbiamo svoltato!». Lillo, «buono a nulla e capace di tutto», è uno degli orchi di Non mi vendere, mamma!, romanzo breve e fiaba moderna appena scritta da Barbara Alberti. A dover «fare la brava» è Asia, la sua giovane compagna, le cui foto da ragazza per bene, sana di corpo e rigorosamente bianca di pelle, Lillo ha appena spedito a un sito per la maternità surrogata. I potenziali clienti arrivano presto, due coniugi americani che pagheranno sull’unghia 150mila euro se una ragazza ‘ospiterà’ il ‘loro’ figlio in utero e lo partorirà per loro. Il ricatto è morale e Lillo è pieno di debiti: la povertà è un ottimo deterrente alla ribellione. «Spero solo che mi prendano», cede Asia, convincendosi che quella sia la sua volontà… E così un giorno davanti alla loro dimora plana, come un’astronave, il macchinone di Bob e Meggy Trump, «sontuosi e cafoni». Ciò che segue, pur nel linguaggio visionario e caustico della fiaba, è cronaca vera, anzi verissima, dall’esame della candidata («lei e il marito la tastarono saggiando i muscoli, i denti, la spina dorsale… Domani ti vedranno i dottori»)al contratto («si dice utero in affitto ma mica è un pezzo staccabile, si affitta la persona tutta intera, dalla dieta ai controlli medici e – dettaglio un po’ antipatico – se il nascituro dovesse avere qualche difetto, la madre temporanea o abortisce o se lo tiene lei, e il compenso verrà drasticamente ridotto»). Asia passerà i nove mesi nella lussuosa clinica svizzera «Brüder Grimm» (Fratelli Grimm: continua la contaminazione tra fiaba e tragedia), e lì l’accerchiamento è di manzoniana memoria (degno della piccola Gertrude, convinta a ‘scegliere’ di diventare Monaca di Monza): il dottor Hansel, e naturalmente la psicologa Gretel, gestiscono ogni suo respiro, mentre la coppia americana la ricopre di blandizie, «Brava, sfogati adesso. Quando in pancia ci sarà il bambino non potrai più piangere». Tutto programmato perché tutto pagato. Senonché…

«Quella notte la svegliò un calcetto. Da dentro». Inizia qui la vera grande storia, i cui unici protagonisti tra tanti penosi comprimari sono Asia eChico, il figlio che le cresce dentro, sapiente e furbo, sfacciato e molesto, pronto a tutto per convincere quella testarda ragazzina a non venderlo. «Da quando ho incontrato Chico, il libro si è scritto da solo», racconta Barbara Alberti, giornalista e scrittrice, femminista di lungo corso: «Non ho scelto il genere, mi è venuto così. D’altra parte non c’è niente di più crudele delle fiabe, come crudele è la vera storia di queste donne. Mi è piaciuta la lettura che ne ha fatto mia figlia: è una storia d’amore tra due bambini, un amore illegale, contro le regole degli adulti. Chico tira fuori il bambino che è in lei, è suo educatore e maestro».

I dialoghi tra la ragazza e la vocetta che le par-la dentro si fanno fitti, commuovono e divertono. Si ride e si piange, mentre lui cerca ogni trucco per gabbare la madre e salvarsi dai Trump. In tempi in cui il bambino-nonancora- nato è «il più povero tra i poveri» (Madre Teresa di Calcutta), colpisce che nel libro di Barbara Alberti sia invece dotato di poteri sovrannaturali proprio in quanto ancora feto. È lui a permettere alla sprovveduta Asia, un po’ figlia del suo figlio, di vedere oltre i muri e parlare lingue straniere. Nei nove mesi di simbiosi fanno pure gli stessi sogni, tanto lui è vicino al suo cuore. «Da questo libro non mi aspetto nulla – precisa l’autrice –, ormai che la tecnica lo permette e il denaro lo favorisce il processo temo sia inarrestabile. Ma almeno la verità va detta: non sopporto l’ipocrisia di chi parla dell’utero in affitto come di un gesto d’amore. L’unica rivoluzione mai riuscita è quella dei ricchi e qui c’è una lobby mondiale che muove 10 miliardi di dollari. I miei Trump, che avrebbero benissimo potuto chiamarsi Clinton, si ispirano alle tante Nicole Kidman, l’attrice australiana che si è affittata un utero per non rovinare il girovita. Ma anche ai Vendola, che da comunista mi viene a dire che la donna cui ha commissionato il bambino è contenta di farlo. Non è accettabile che questo passi per una battaglia progressista, quando si fonda su schiavitù, compravendita umana e pure eugenetica. La pancia è nera come la notte, ma l’ovulo è bianco e il bambino ti esce sempre immacolato».

Così Chico si lamenta, «hai prostituito pure me! mi hai fatto nascere per soldi!», la seduce, «io e te siamo una cosa sola, respiriamo insieme», la striglia, «mi tieni nove mesi dentro di te e poi chi s’è visto s’è visto? Ma che sei scema, mamma? Ma che davvero mi vuoi dare a quei due?», la innamora, «io da quelli non ho preso niente! Non sai cosa ti perdi ». Infine in una sorta di giostra felliniana, tra inseguimenti, prodigi e animali parlanti, i due scapperanno insieme, dentro un poetico lieto fine.

«Io ho tutte le carte in regola per non essere considerata bigotta – conclude Alberti –, ma oggi abbiamo una tecnologia altissima e lo stesso cervello di Neanderthal. Leggo di personaggi che, soddisfatti del primo utero in affitto, dicono ‘ora faremo una femmina’, e lo chiamano pure diritto. Un figlio è una relazione, proprio quella che cresce durante la gravidanza, lo abbiamo sempre saputo: ora torniamo alla clava?».

Fonte: Avvenire

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