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Lirica, arte e dialogo. Primavere dell’Oman

«Tout est fini!». Dopo aver lanciato un ultimo grido disperato per un amore mai alimentato e soffocato la dilaniata Charlotte, vissuta in scena dal mezzosoprano Elena Zhidkova, si accascia. Sipario. «Tutto è finito!». La passione del giovane Werther anche nella versione di Jules Massenet ha avuto il suo inevitabile, tragico epilogo. L’opera è compiuta. Partono gli applausi dei circa 900 spettatori e i «bravò» indirizzati al nostro tenore Stefano Secco, ancora provato dalla dilatata agonia del suo Werther, e al direttore Frédéric Chaslin che impeccabilmente ha guidato la prestigiosa e inappuntabile orchestra della Wiener Staatsoper.

Ma non siamo a Vienna, non nella gloriosa State Opera House e nemmeno in un qualunque altro tempio della lirica occidentale. Siamo all’altezza del tropico del cancro, fuori aleggiano 38 gradi di umidità, e non si ha per niente voglia di uscire, non solo per la piacevole e vitale aria condizionata, ma soprattutto per non staccare gli occhi da una bellezza inebriante, per continuare a godere di un’acustica perfetta, di dettagli mirabili, legni intarsiati e pregiati, marmi di Carrara specchiati… Un incanto che cattura e assicura che qui l’opera non è affatto compiuta, anzi, qui tutto è appena iniziato. È il punto di arrivo di un quarantennale processo di sensibilizzazione ed educazione artistica, è la punta dell’iceberg di un investimento massiccio e costante in istruzione e turismo, è la conseguenza di due convinzioni: con la cultura si può mangiare e con la bellezza si può tentare di salvare il mondo. «È il gioiello della corona – ci spiega con orgoglio sua altezza il principe Kamil Al Said – un prodigio tecnico e architettonico, un palcoscenico che ospita e diffonde espressioni artistiche di ogni latitudine, un luogo in cui la musica e le arti performative rappresentano strumenti potenti e ineguagliabili di dialogo e armonia fra Oriente e Occidente». È la Royal Opera House di Mascate .

E non siamo nell’Isola di Utopia di Thomas More e nemmeno nella Neverland di J.M. Barrie. Siamo nel sultanato dell’Oman. «È un’anomalia, un vero miracolo, sintesi esemplare di fusione fra tradizione e innovazione». Non è quest’ultima un’osservazione iperbolica, ma la constatazione oggettiva di un italiano in Oman: Umberto Fanni, chiamato due anni fa a dirigere questo teatro più unico che raro in tutta la penisola arabica, sorto laddove appena 45 anni fa c’era solo deserto e fortemente voluto da chi ha operato una metamorfosi rapida e intensa creando un benessere diffuso e un welfare invidiabile.

Fautore e protagonista assoluto di questo ribaltamento sua maestà Qabus bin Said, il sultano asceso al potere nel 1970 con un leggendario e incruento colpo di Stato. Tornato dopo aver studiato in Inghilterra, diventato fan dei Beatles (al ritorno in patria aveva nascosto nel baule un vinile dei Fab Four all’epoca al bando nel suo Paese come la tv, la radio e gli occhiali da sole che «annebbiavano l’anima»), il giovane Qabus entrò subito in contrasto col vecchio padre oscurantista Said bin Taymur. Con una fulminea sommossa mandò in esilio l’anziano genitore e diede avvio a una repentina rivoluzione economica, sociale e culturale: due erano le scuole, due anche gli ospedali e strade asfaltate per appena una decina di chilometri in un territorio grande come l’Italia; ora il grado di alfabetizzazione è del 97,6%, 25mila chilometri le strade asfaltate e ovunque nel Paese infrastrutture all’avanguardia.

Dappertutto anche i suoi ritratti, la sua foto viene appesa agli specchietti retrovisori dei fuoristrada o ricopre un’intera facciata dei palazzi. Una sovraesposizione fotografica che però è anche un riflesso dell’affetto e della stima che il popolo omanita nutre nei confronti di una figura carismatica. Comunque un leader illuminato, da sempre sensibile ai bisogni della sua gente, il sultano Qabus, che una volta l’anno incontra gli anziani e i capofamiglia e, guardandoli negli occhi per carpire la verità, ascolta ed esaudisce le loro richieste. Colloqui intimi e privati sintomatici di una costante apertura al dialogo che avviene su larga scala.

L’Oman, infatti, si è accreditato come il Paese che opta per il confronto e la sobrietà dei costumi e prende le distanze da integralismi, bulimie e ostentazioni del lusso. Evidente anche la lungimiranza politica di questo Paese islamico che, pur possedendo riserve di petrolio pari a 5,5 miliardi di barili, pensa ad alternative economiche orientando gli investimenti nei settori della cultura e del turismo. Previdente dunque l’Oman e consapevole che la convivenza pacifica è un altro dei cardini dello sviluppo. Consapevolezza che affonda nella dottrina ibadita, la religione dominante (73,6%), una sorta di terza via musulmana fra il credo sunnita, da cui ha origine, e quello sciita. L’ibadismo esclude ogni forma di vendetta e predica tolleranza e coesistenza con le altre religioni.

Un principio che vive in prima persona quotidianamente Naima Ali Yusuf, volontaria e guida della Grande Moschea. Alla domanda «che cosa direbbe una religiosa ibadita ai fanatici che strumentalizzano il nome di Dio?», Naima risponde così: «Separare l’amore di Dio dall’amore per i fratelli significa tradire profondamente il Corano». E poi, rivolgendosi direttamente ai terroristi del Daesh, aggiunge: «Svegliatevi! L’inferno esiste!». Parole pesanti ma pronunciate senza durezza e con dolcezza come quelle che ci regala il filippino padre Raul Ramos, cappuccino di 62 anni e dal 2007 parroco della Chiesa di San Pietro e Paolo, testimonianza solida e concreta della convivenza religiosa, che sorge nel quartiere Ruwi di Mascate e i cui terreni sono stati donati dal generoso Qabus. Una parrocchia che richiama 25mila fedeli di diverse nazionalità, in prevalenza indiani, filippini, pachistani, nepalesi, ma anche libanesi ed europei. «Lavoro e chiesa – ci svela non senza commozione padre Ramos – non hanno altro. Ho visto molti di loro giungere qui disperati e scoprire un’intimità con Dio inimmaginabile; alcuni percorrono centinaia di chilometri per venire a messa». Questa la gioia maggiore del parroco filippino. Il dolore più grande? «La lontananza dei fedeli che si trovano nelle parti più interne della regione, non poter celebrare messa con loro perché non ci è permesso al di fuori dei luoghi autorizzati. Ma confido nella generosità del sultano che magari conceda altri terreni per edificare altre chiese».

Si spera quindi in un futuro ancora più aperto come quello che sta costruendo Umberto Fanni per una Royal Opera House che ambisce a coinvolgere per la prossima stagione cinque continenti, Usa, Europa, Medioriente, Russia e Asia, e otto teatri d’opera per una coproduzione di respiro internazionale. L’Oman, dunque, vuole fugare l’incubo di un islam retrivo e reazionario per scommettere su un sogno fatto di armoniche aperture, proprio come insegna un famoso proverbio arabo: «Se stringi nel pugno la sabbia del deserto non riuscirai a trattenerla. Se lasci aperta la tua mano, si riempirà di sabbia».

 Fonte: Avvenire.it

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