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I tanti volti d’Expo

Domenico. Klodian.
Due morti difficilmente accomunabili per la stridente differenza, per la quasi impossibilità ad essere paragonati.
Un unico punto in comune: due giovinezze perdute. Pochi anni a dividerla, un’unica morte ad accomunarli, a poco tempo di distanza, eppure in modi così eminentemente differenti.
Klodian aveva 21 anni ed è morto cadendo da un’impalcatura, mentre faceva nascere quell’Expo, che ora tanti, da tutto il mondo vengono ad ammirare. Klodian ha pagato con il prezzo più alto. La sua vita.
Morti bianche. E sembra un’edulcorante definizione per alleggerire uno tra i crimini maggiori dell’umanità: quello delle morti sul lavoro. Il più delle volte per inesperienza, incuria. Ignavia.Vite oscure ed oscurate. Come se non valessero. il prezzo del progresso.
Come spesso accade, avanziamo sulla pelle dei poveri. Di chi si accontenta di poco da vivere. E a cui togliamo anche quel poco, in nome di un bene definito a vantaggio di tutti, ma che spesso finisce per avvantaggiare pochi, quasi sempre “i soliti”. Klodian Elezi lavorava nel cantiere della Teem, la nuova tangenziale est esterna di Milano. È caduto da un ponteggio di oltre dieci metri, che stava smontando. Per lui non c’è stato nulla da fare: morto sul colpo.
Era l’11 aprile 2015, poco dopo le 13.
I lavori andavano finiti in fretta, per l’inaugurazione dell’Expo: quella galleria, all’altezza del futuro casello di Pessano con Bornago, andava conclusa prima dell’inizio dell’evento. Inutile dire che la fretta è sempre cattiva consigliera. Nel cantiere, di proprietà della Iron Master, una volta posto sotto sequestro, sono state rilevate naturalmente irregolarità, prime fra tutte l’assenza delle imbracature di sicurezza, che avrebbero salvato la vita del giovane operaio di origini albanesi.
In Italia da molti anni, è cresciuto a Chiari (BS), dove giocava negli Young Boys, conosciuto da tutti. La sua salma è tornata in Albania.
Un ragazzo normale, un ragazzo morto sul lavoro. Quel lavoro che forse tanti dei nostri ragazzi non fanno più. Ha accettato di lavorare anche in mancanza dei requisiti minimi di sicurezza. Ha perso l’equilibrio e ha pagato questo errore con il prezzo più alto: la sua vita.
Ha perso l’equilibrio ed è caduto. Niente di più – drammaticamente – semplice. Quale il motivo? Importa davvero? Ipoglicemia. Malore. Stanchezza. Può essere qualunque cosa, ma la consapevolezza, è che la vera risposta risiede proprio in quella mancanza di sicurezza che è spesso corollario del lavoro nero, che affligge tante nostre ditte (perché questa è la vera piaga, non la mancanza di qualche fattura che, in un paese oberato da imposte insulse, sembra quasi una barzelletta!).
È morto un ragazzo di origini albanesi. Che ha ricevuto in sorte dal Belpaese la stessa morte sul lavoro ricevuta da suo zio: una caduta da un’impalcatura. Albanese, già. Ma avrebbe potuto essere italiano. O di qualunque altra nazionalità. La morte non guarda a queste facezie. Ma se manca la fune, l’imbracatura e quei dispositivi minimali di sicurezza che richiedono certi lavori, una banale distrazione può rivelarsi fatale.
Di Klodian si sanno poche notizie, frammentarie, impolverate come le sue giornate. Centellinate come le righe a lui dedicate. Pare che morire a 21 anni su un ponteggio, nel 2015, non desti interesse sufficiente ad accendere l’attenzione dei media.
Dispiace. Risulta l’ennesima occasione persa.
La storia di Domenico attira, come purtroppo attirano attenzione e curiosità un po’ splatter questo genere di storie, con una certa aurea da “giallo” da risolvere. Curioso, se paragonato alla storia precedente, no? Sostanzialmente, la differenza diventa risibile, vista da questo punto di vista: ci sarà differenza di qualche metro, eppure stiamo parlando di due ragazzi giovani che, caduti da diversi metri d’altezza, hanno perso la vita.
Ma il contesto è diverso, molto più familiare ai nostri deschi abituali, all’ora di cena. La gita scolastica, un “must” degli adolescenti, in cui spesso riescono a dare il peggio di sé. Ecco allora che subito scatta il pregiudizio (fondato o meno, poco importa: basta pesarsi sul calcolo delle probabilità, per pensare che le ipotesi andranno a buon fine, anche senza certezze che sia così), che giunge persino a far dimenticare quella pietà che si deve ad ogni morto, chiunque sia ed in qualunque modo sia deceduto. A maggior ragione, considerando che, ad oggi, ancora il mistero è fitto sulle circostanze della sua morte.
I genitori, in un comprensibile appello dettato dal dolore, chiedono che “chi sa, parla”.
Tuttavia, ancora poche sono le certezze. Non è stato stabilito neppure se ci fosse qualcuno con il ragazzo al momento del decesso, oppure no. Si è parlato di un clima goliardico, di festa, di qualche bicchiere di birra (ma quanto effettivamente il ragazzo abbia bevuto non si sa ancora, anzi, dai rilievi sul corpo pare che non fosse ubriaco), di scherzi (magari di pessimo gusto). Ma nulla di tutto questo, da solo, basta a spiegare che un ragazzo di diciannove, all’apparenza senza alcun problema, cada dal quinto piano di un hotel della provincia, alle prime luci dell’alba di una gita scolastica per far visita all’Expo.
L’unico augurio, a questo punto delle indagini, è che si possa trovare, se ci sono, i colpevoli o i complici di questa strana morte. Ma anche che non si proceda con la smania di trovare un colpevole per forza, che le indagini siano accurate, per evitare che al dolore per la morte di un ragazzo si aggiunga la frustrazione per la punizione inflitta alla persona sbagliata, ad un innocente costretto a fungere da capro espiatorio per la “fame” di un colpevole da additare.
Le ipotesi sono tante, chiunque abbia partecipato ad una gita scolastica, sa quali possono essere i rischi in agguato, ma il problema qui è stabilire cosa sia successo in quell’occasione in cui è morto Domenico Maurantonio. Non basta ricordare con sdegno e disapprovazione cosa può accadere e cosa sia accaduto tante volte.
Domenico, Klodian. Due volti, due storie diversi. Entrambi tuttavia ci interrogano in profondità, come ogni morte giovane, che ci guarda negli occhi e ci comunica che non siamo immortali, che anche quando siamo giovani, pieni di vita, forza, sogni, speranze, basta un niente a porre fine alla nostra esistenza terrena. Ci ricorda che abbiamo il dovere di prendercene cura e non possiamo darne per scontata la bellezza, l’unicità, la preziosità.
Nessuno può accontentarsi di un sogno, senza almeno provare a renderlo vero. A volte, siamo pervasi dalla sensazione d’ingiustizia, come se il filo si fosse spezzato troppo presto, prima che ci fosse troppo sufficiente a rendere reali i desideri di una vita che aveva appena visto l’alba e che provava a sbocciare, a proprio modo, secondo la propria natura e i propri carismi.
No, la realtà è che di fronte a queste tragedie la nostra anima si ribella, perché una vita sola è troppo poca per l’altezza immane dei sogni che ci abitano!

 

Fonte: SullaStradadiEmmaus.it

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