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Finanza. Gli svarioni degli investitori robot

Confondono il presidente sudafricano con una missione militare, credono alle bufale, comprano qualsiasi cosa si leghi ai bitcoin. Gli algo-trader hanno un problema di stupidità artificiale.

Quella che si gioca ogni giorno sui mercati finanziari è sempre più una partita tra robot. Non ci sono dati ufficiali su quanti degli scambi delle borse siano opera di sistemi di intelligenza artificiale, ma stime attendibili – come quella diffusa quest’estate da JpMorgan Chase – dicono che a Wall Street l’algo-trading rappresenta ormai il 60% dei volumi. Nella maggioranza dei casi l’acquisto o la vendita di un’azione è quindi il frutto automatico dei calcoli elaborati dai computer sulla base delle istruzioni contenute in complicati algoritmi e delle informazioni che raccolgono autonomamente sul web. Gli algoritmi possono essere più o meno efficienti nel loro processo decisionale e più o meno abili nel sondare i big data in cerca degli elementi giusti per elaborare le scelte.

In genere se si tratta di gestire gli scambi quotidiani e non di valutare il potenziale a lungo termine di un’azienda su cui investire, i robot sono trader migliori degli umani. Si muovono velocissimi e hanno una mostruosa capacità di raccogliere le informazioni e analizzarle rapidamente. E poi non si emozionano mai, non hanno paura se le cose vanno male né si galvanizzano quando stanno guadagnando. Funzionano. Difatti anche i giganti della finanza mondiale, come Goldman Sachs e JpMorgan, periodicamente annunciano il licenziamento di un certo numero di trader umani le cui capacità sono state rese obsolete dai sistemi automatizzati.

I robot confusi da Zuma

Il problema dell’intelligenza artificiale è che ogni tanto si dimostra incredibilmente stupida. È successo per esempio lo scorso martedì, quando i robot hanno abboccato alla bufala che parlava delle dimissioni del presidente sudafricano Jacob Zuma. Lo aveva scritto un tipico sito di ‘fake news’. I trader automatizzati però hanno letto e ci hanno creduto.

A confonderli, secondo una teoria avvalorata da Bloomberg, potrebbe essere stata anche un’altra notizia, vera ma che non c’entrava nulla. Negli stessi minuti in cui si diffondeva la bufala delle dimissioni, la compagnia di lanci spaziali SpaceX tentava di mandare in orbita un satellite militare americano, ma per motivi ancora da capire è andata male e l’apparato è sprofondato nell’oceano. Sfortunatamente per i robot, il nome in codice di questa missione era Zuma. Su Twitter quindi si è propagato il dibattito sul fallimento di Zuma, e nei cervelli artificiali si è rafforzata la convinzione che stesse per cambiare il presidente del Sudafrica.

Sondando il web i robotrader già sapevano che l’oppositore di Zuma all’interno dell’African National Congress, Cyril Ramaphoa, promette politiche più favo- revoli alla crescita economica. Risultato: sono partiti gli acquisti. Il valore del rand, la valuta sudafricana, è salito dell’1% rispetto al dollaro americano nel giro di cinque minuti, per poi scendere altrettanto rapidamente quando i trader umani sono intervenuti per rimettere a posto le cose, un po’ come il vecchio mago nella favola dell’apprendista stregone.

Il razzo Falcon9 di SpaceX riatterra dopo avere fallito la missione di mandare in orbita un satellite militare per la missione Zuma (Foto Ansa-Ap)

Algoritmi che credono alle bufale

Non è raro che i robot facciano errori del genere, lasciandosi imbrogliare da notizie sballate. Nel 2013 un hacker entrò nell’account Twitter dell’agenzia americana Associated Press e scrisse che il presidente Barack Obama era stato ferito in un’esplosione alla Casa Bianca. Ci hanno creduto solo i robot, che hanno provocato un repentino crollo dei listini americani, seguito da una correzione altrettanto rapida.

Ci sono cascati anche l’ottobre scorso, quando qualcosa è andato storto durante un test del servizio di notizie Dow Jones Newswire. L’agenzia ha trasmesso per errore ai clienti testi di prova dove si raccontava che «in una mossa sorprendente per chiunque, Google ha annunciato che comprerà Apple per 9 miliardi di dollari». Chiunque conosca un minimo le due aziende ha capito subito subito che non aveva senso. Se non altro perché Apple valeva più di cento volte tanto. Ma la fonte era affidabile e gli algoritmi ci sono cascati, vendendo una montagna di azioni Apple. Subito i titolari dei soldi sono intervenuti per fermarli.

La passione robotica per blockchain

C’è uno zampino robotico anche dietro alle assurde performance delle aziende che si legano anche vagamente alle criptovalute. A dicembre alla Long Island Iced Tea, compagnia newyorchese che produce tè ed è in perdita da anni, è bastato ribatezzarsi Long Blockchain Corp. per ingannare gli algoritmi e guadagnare in Borsa il 289% in pochi minuti.

È successo qualcosa del genere anche con un marchio ben più conosciuto come Kodak. L’azienda va piuttosto male, ma martedì ha annunciato una collaborazione per lanciare un servizio per premiare il laovoro dei fotografi che funziona con una “blockchain”, la tecnologia alla base dei bitcoin. Gli algoritmi si sono entusiasmati e hanno scatenato le vendite: il valore dell’azione Kodak è volato da 3,5 a 12,8 dollari in mezza giornata.

L’incredibile impennata del titolo Kodak dopo l’annuncio di un’iniziativa sulla blockchain. Dopodiché è iniziata la discesa

Un rischio per la stabilità finanziaria globale

Magie degli automatismi dell’intelligenza artificiale. I cui periodici episodi di stupidità – ha avvertito il Financial Stability Board, l’organismo creato dal G20 per evitare nuove crisi economiche mondiali scatenate dalle Borse – rappresentano sempre più un rischio per il sistema finanziario globale. Il Fsb scrive che è “importante che il progresso nell’applicazione di intelligenza artificiale e machine learning sia accompagnato da un ulteriore progresso nell’interpretazione dei risultati degli algoritmi e delle loro decisioni. La crescente complessità dei modelli può minare la capacità degli sviluppatori e degli utenti di spiegare pienamente, e in qualche caso comprendere, come funzionano”.

Fonte: Pietro Saccò | Avvenire.it

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