Messaggi Whatsapp, post su Facebook o Instagram, applicazioni, mail, news e giochi. Adam Alter: «Un dispositivo studiato per attirare ogni istante la nostra attenzione, come una slot machine»

Quella notifica di Whatsapp che proprio non possiamo perdere, il post di Facebook che sembra imprescindibile, il nostro profilo Instagram e i like in aumento o in diminuzione, i tweet in arrivo, e quella notizia incredibile che dobbiamo condividere subito. Tutto concorre a tenerci sempre connessi, attaccati agli schermi dei nostri smartphone, da cui ci attendiamo continue novità e gratificazioni. Nel nostro rapporto con il cellulare “intelligente” che portiamo in tasca o nella borsa siamo ormai arrivati a un punto di simbiosi tale che dovremmo abituarci a guardarlo come una sorta di slot machine, un dispositivo studiato per creare dipendenza, dove nulla è lasciato al caso ma ogni dettaglio ha lo scopo di rendere estremamente difficile staccare gli occhi (e le dita) dallo schermo. Nell’era del sovraccarico informativo, la risorsa veramente preziosa è la nostra attenzione: per attirarla e trattenerla è in atto una lotta senza esclusione di colpi tra i protagonisti del Web. In palio ci sono gli enormi investimenti della pubblicità online, che hanno bisogno di individuare destinatari quanto più possibile interessati ai prodotti che propongono. «Siamo nell’economia dell’attenzione, dove servizi come Facebook, Instagram o Twitter cercano di attrarci e farci tornare sempre più spesso e per un tempo più lungo sui propri siti. In una situazione del genere i meccanismi che creano dipendenza sono vincenti», spiega Adam Alter, professore di marketing e di psicologia alla New York University, autore di un volume uscito di recente negli Stati Uniti, Irresistible, in cui studia come sono nate e si sono affermate quelle che l’autore chiama «tecnologie della dipendenza».

Professor Alter, in che modo i servizi che usiamo più spesso riescono a tenerci agganciati, rendendo molto difficile distaccarcene?

«I social media ci coinvolgono in vari modi: i like, i retweet, i commenti, le condivisioni ci inducono a produrre e condividere contenuti sempre nuovi allo scopo di ottenere apprezzamen- ti. È un meccanismo alla base della dipendenza: la gratificazione di vedere che qualcuno è d’accordo con noi e approva ciò che facciamo. Il rinforzo positivo che otteniamo induce la produzione di dopamina e quindi il desiderio di ripetere sempre più spesso quell’esperienza. Ma non c’è garanzia che otterremo gratificazioni simili in futuro: su Instagram ad esempio una foto può ottenere un gran numero di like e quella successiva nessuno. Proprio questa incertezza aumenta la dipendenza, spingendoci a provare e riprovare, nella speranza di un feedback positivo».

Proprio come una slot machine…

«Esatto. Un altro espediente usato spesso è quello di porre obiettivi – arrivare a mille amici, a cento like o duecento condivisioni – e questo estende il coinvolgimento nel tempo. Molto comune è anche lo scorrimento continuo del testo, senza separazione tra una pagina e l’altra, una tecnica adottata fra gli altri da Facebook e Instagram. Non si raggiunge mai la fine della propria bacheca e si può continuare a scorrere teoricamente all’infinito. Siamo così portati a continuare a controllare, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e interessante».

Questo tipo di dipendenza può essere in qualche modo paragonato a quella da sostanze come droga o alcol?

«Certamente non ha le stesse conseguenze sul piano fisiologico – non provoca morte o gravi malattie come la tossicodipendenza o l’alcolismo – ma riguarda un numero molto più elevato di persone: è da considerare a rischio praticamente chiunque abbia accesso a un telefono cellulare. La definizione di dipendenza che preferisco è quella di un’esperienza che si continua a ripetere compulsivamente nel breve periodo e che a lungo termine danneggia il proprio stato psicologico, finanziario, sociale e in certi casi anche fisico. È il modo in cui molti di noi usano gli schermi, spesso a scapito della propria vita di relazione».

Quali sono gli strumenti o i servizi più insidiosi da questo punto di vista?

«Certamente l’email ci fa perdere molto tempo ogni giorno, ma credo che i problemi principali derivino dai videogames, penso in particolare al popolare “World of Warcraft”, un gioco di ruolo online che coinvolge decine di milioni di persone, circa la metà dei quali, secondo alcune ricerche, avrebbero sviluppato forme di vera dipendenza. Negli Stati Uniti e in altre parti del mondo ci sono cliniche specializzate nella cura di questa patologia».

Come immagina l’evoluzione di queste tecnologie?

«Temo molto gli sviluppi della realtà virtuale e della realtà aumentata, che renderanno ancora più facile il distacco dalla situazione reale in cui ci troviamo per sfuggire in un mondo virtuale in cui tutto sembra perfetto».

Come possiamo sottrarci allora ai rischi di dipendenza, e educare i nostri figli a farlo?

«Non è facile, ma possiamo abituarci a smettere di usare i nostri dispositivi in certi momenti della giornata. E poi dobbiamo insegnare a farlo anche ai più giovani in famiglia, proprio come li educhiamo a salutare, ringraziare e in generale alle buone maniere nei rapporti con gli altri. In particolare è molto importante non usare il cellulare immediatamente prima di dormire: la luce emessa dallo schermo segnala al nostro cervello che è ancora giorno e induce una forma di jetlag, incidendo sulla qualità del sonno sia degli adulti che dei ragazzi».

In Italia è in corso un vivace dibattito sull’opportunità di utilizzare i telefoni cellulari in classe come strumento didattico con il quale gli insegnanti potrebbero coinvolgere maggiormente gli studenti. Cosa ne pensa?

«Le dico solo che alla Business School della New York University non è consentito utilizzare alcuna tecnologia in aula: niente telefono, computer portatile o iPad. Ed è un’impostazione che condivido pienamente».

Fonte: Stefania Garassini – Avvenire.it