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È come costruire una cattedrale

Quando compare il numero di Mario Adinolfi sul mio cellulare è come se squillasse il telefono rosso della sala ovale, quello delle emergenze alla Casa Bianca. C’è di sicuro qualche guaio in vista. O mi vuole coinvolgere in qualche convegno per cui mi daranno dell’omofoba, o mi chiede di scrivere un pezzo, o c’è da combinare qualche altro danno. Bisogna temere soprattutto se il messaggio comincia con “tesoro”. Allora il cetriolo è sicuro.

Questa volta il “tesoro” non c’è, ma forse è perché a quest’ora, di domenica mattina, deve essere poco lucido anche lui. Siamo reduci da una giornata davvero intensa, quella del convegno di Milano. Io sto facendo le divisioni di terza elementare, dando una ripassatina all’aoristo sigmatico e al rinascimento, devo dare una parvenza di ordine alla casa un po’ provata dalla mia assenza di ieri e vedere se per caso riesco a simulare un pranzo domenicale (pare che i surgelati non siano omologati, mi viene in soccorso la roccia di casa, mio marito). E mi accorgo che sto facendo le solite vecchie cose con un altro spirito.

Così, quando Mario mi chiede di scrivere per questo giornale cosa mi è rimasto del convegno, ecco, mi accorgo che mi è rimasto innanzi tutto questo: la certezza ancora più salda che cercare di fare qualcosa per la famiglia, la mia innanzitutto, e poi le altre, è qualcosa di grande. È come costruire una cattedrale, è come combattere, è come stare in trincea. Qualcuno di noi lo fa parlando da un palco, qualcuno allattando, qualcuno correggendo compiti, qualcuno lavorando e portando il pane a casa, qualcuno a volte circoncidendo il suo cuore e i suoi pensieri, e decidendo di rimanere al proprio posto di combattimento, stando a mani nude contro la tentazione della stanchezza e della fuga, attimo dopo attimo. Torno a casa con la certezza di essere parte di un popolo che vuole dire la bellezza della famiglia, e che è pronto anche a grandi sacrifici per questo. Torno con l’impressione che a volte è necessario guardarsi negli occhi, stringersi in un abbraccio, per sapere che il tuo compagno di trincea fa la tua stessa fatica ma è lì pronto a darti una mano, perché la famiglia ha tanti nemici, fuori, nella società (leggi, fisco, cultura) ma anche dentro al cuore umano, al nostro cuore pieno di stranezze, malattie spirituali, fragilità.

Torno con la certezza che se avrò bisogno di qualcosa qualcuno in questo popolo sarà sempre pronto a darmi una mano e aprirmi una porta, così come ho visto fare ieri: famiglie ospitate da altre, figli affidati e scambiati, portafogli aperti per quelli che non ce la facevano. Torno con la certezza che qualcosa di vero muove tanti cuori, e che a volte si ha bisogno di guardarsi negli occhi. Non tanto di contarsi, perché sì, eravamo in tanti, ma quello che importa non è il numero, è la certezza della compagnia, è la scoperta che siamo amici veri, perché uniti da un Amico in comune. Ci siamo chiamati a raccolta senza mezzi, senza le corazzate della comunicazione, col passaparola, su facebook e per telefono. C’è chi ha preso un giorno di ferie (per una dottoressa l’unico del mese, dico!), chi ha dovuto risparmiare per fare questo viaggio. C’è chi ha preso un aereo, un treno, un traghetto addirittura. C’è chi è venuta anche se malata, e seriamente, e non è riuscita a entrare ed è stata tre ore al freddo solo per abbracciarci, con uno dei suoi bambini. Ci sono anche persone molto importanti, professionisti seri e stimati e noti a Milano, che si sono messi in coda come tutti e poi non sono riusciti a entrare. Alcuni se ne sono andati a casa a vederci in streaming, alcuni sono restati fuori. Tra quelli fuori c’era chi veniva dall’Abruzzo, e comunque non lo ha considerato un viaggio a vuoto.

Di tutto questo ovviamente non parleranno i giornali, che non hanno praticamente riferito una sola parola di quelle che abbiamo detto, ma solo commentato la bugia lanciata da un quotidiano (“convegno omofobo”), bugia di cui, ha detto Maroni, si occuperanno gli avvocati. E hanno riferito i commenti dei contestatori, che stavano fuori, a quella bugia. Poverini, non avevano sentito niente, era difficile che commentassero, ma magari riferire una frasetta di quelle che avevamo detto dentro, così, en passant, come se si fosse giornalisti, poteva essere una cosa bella. Tanto per cambiare, dai, famolo strano.

A me, personalmente, comunque non me ne potrebbe importare di meno (a me mi non si dice ma è rafforzativo). Io torno a casa con tre buste cariche di regali, dico tre buste. Generi di conforto di ogni tipo, alimentare e spirituale. Torno a casa con la certezza che vale la pena, che qualcosa di grande ci sta facendo battere il cuore. Torno a casa con la certezza che noi vogliamo solo annunciare la gioia, perché catholics do it better, e vogliamo solo passare parola, e non siamo contro nessuno, e secondo me chi era in sala di questo si è accorto.

Torno a casa dopo avere visto un sacerdote che si è fatto mille chilometri solo per parlare tre minuti, e non ha aperto bocca per protestare. Torno a casa sapendo che ci sono ancora veri uomini come i nostri mariti e pronti a dare la vita per noi. Torno a casa sapendo che nella Chiesa ce ne sono, di uomini così, sono i sacerdoti che hanno ancora voglia di dire all’uomo la verità su di sé, e che per farlo sono pronti a fare tanta fatica, e mica solo ai convegni, ma dentro ai confessionali, nelle parrocchie, in ginocchio davanti al Santissimo, uomini a cui non importa il consenso ma la felicità vera delle persone.

Torno a casa dopo avere visto e abbracciato (molte no, non ce l’ho fatta ad abbracciarle) tante donne che hanno dato la vita – biologica o no – a tanti, tantissimi bambini, o che si sono spese in altri modi per gli altri, donne vere e generose e felici di servire, non da schiave ma da volontarie custodi degli altri. Donne che potranno dire, come la mia amica medico: non so quando né come morirò. Per certo so che morirò stanca, e molto usata. Il mio utero, il mio seno, le mie mani il mio cuore il mio cervello. Avrò usato tutto di me per aiutare la vita, e sarò molto felice di avere consumato tutto quello che potevo.

fonte: La Croce

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