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«Non si deve adattare il Vangelo alla cultura, ma al contrario cristianizzare le culture»

Convegno di grande spessore a Milano su Giovanni Paolo II e la sua “forza da gigante”. La lezione del cardinale Eijk, primate d’Olanda, su post-modernità e nuova evangelizzazione

Anche quest’anno il Centro internazionale Giovanni Paolo II, l’associazione culturale Esserci e il Centro francescano Rosetum hanno offerto alla città di Milano un convegno di filosofia di grande spessore. Stavolta oggetto della riflessione è stato il rapporto di Giovanni Paolo II con la modernità, e a partire dal titolo “Con la forza di un gigante, Giovanni Paolo II e la modernità” (che riecheggia le parole pronunciate da Benedetto XVI nell’omelia per la beatificazione di papa Wojtyla nel 2011), hanno relazionato il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo di Utrecht e primate della Chiesa olandese, con un intervento su “Modernità, Postmodernità e Nuova Evangelizzazione a partire dal magistero di san Giovanni Paolo II”, il professor Marco Cangiotti dell’Università degli studi di Urbino Carlo Bo su “Verità, libertà e storia: le due modernità” e il professor Francesco Botturi dell’Università Cattolica di Milano su “Cultura e neoumanesimo moderno”.

PRESENZA E COMUNITÀ

Ha introdotto i lavori monsignor Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara. «Le parole fondamentali della tradizione cristiana non sono soggetto e oggetto, ma presenza e comunità», ha sottolineato Negri. «La fede genera una cultura, un approccio alla realtà, non una visione chiusa in se stessa. Quindi essa non ha paura se è chiamata a cambiare; ma cambia per essere più vera come fede, non cambia per le pressioni del mondo. Altrimenti si perderebbe».

LA FINE DELLA MODERNITÀ

Il cardinal Eijk ha diviso il suo intervento in due parti, la prima descrittiva del passaggio dalla modernità alla post-modernità, la seconda dedicata alla proposta wojtyliana della nuova evangelizzazione. Citando il libro di Stefan Zweig Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo ha individuato la fine cronologica della modernità e più in generale del “vecchio mondo” nell’estate del 1914, quando scoppia la Prima Guerra mondiale. Da essa escono distrutti l’ordine sociale e politico continentale e la fede nella verità, sia quella cristiana che quella del razionalismo illuminista.

È vero che già in precedenza l’uno e l’altra erano stati scossi dalla nascita del movimento socialista, dalle teorie darwiniane e dalla scoperta dell’inconscio da parte di Sigmund Freud, ma è solo l’esperienza dei massacri e delle distruzioni prodotte dall’applicazione tecnica delle scoperte scientifiche al modo di condurre la guerra che diffonde anche fra le masse la prima grande ondata di miscredenza religiosa e di disillusione nei confronti del progresso.

L’IMPOSSIBILITÀ DEL CONFRONTO

Tutto questo si accentuerà nel Secondo Dopoguerra, quando lo statuto di verità delle scienze, già messo in discussione da Heidegger e Wittgenstein a cavallo fra le due guerre, viene definitivamente confutato dagli strutturalisti e dai post-strutturalisti: Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Roland Barthes, Jacques Lacan, Michel Foucault, Jean-François Lyotard, Gianni Vattimo.

È Lyotard il primo che mette a tema il post-moderno, spiegando nel suo libro La condizione post-moderna che essa coincide con la fine della credenza nelle grandi narrazioni condivise da grandi masse umane (illuminismo, marxismo, cristianesimo) e con la convinzione che l’uomo non è affatto autonomo essendo condizionato dal sistema, dall’opinione pubblica, dall’inconscio e dal linguaggio. «Non è più possibile un vero confronto perché è venuta meno una visione condivisa della realtà», dice Eijk.

L’INDIVIDUALISMO COME CULTURA DI MASSA

Il relativismo etico e l’individualismo sono la logica conseguenza del post-moderno, e non solo a livello di circoli filosofici. «Il post-moderno non è rimasto nell’ambito della filosofia, ma grazie al diffondersi della prosperità dopo la Seconda Guerra mondiale è diventato cultura di massa: la prosperità ha reso concretamente praticabile la radicale autonomia individuale, accentuata ulteriormente negli ultimi anni dai social media».

Secondo il cardinale, «oggi il Vangelo è una grande narrazione che non è stata ereditata da una grande parte degli europei, anzitutto perché è venuta meno una visione comune relativamente al mondo, a Dio, all’uomo. Gli intellettuali cristiani potevano discutere con gli intellettuali moderni, perché entrambi avevano in comune l’idea di verità. Questo è diventato impossibile con l’avvento del post-moderno. Che ha esercitato il suo influsso anche fra i credenti, in buona parte oggi convinti che una religione vale l’altra, che dogmi e dottrina devono cedere il passo al benessere spirituale individuale e che sostituiscono tranquillamente il crocifisso con la statua del Buddha ridente».

IL TEMPO DELLE CERTEZZE AL TRAMONTO

Giovanni Paolo II, ha detto il primate d’Olanda entrando nella seconda parte della sua esposizione, era consapevole della difficoltà di comunicare il Vangelo nella nuova situazione, anche se cita espressamente il post-moderno una sola volta, nella Fides et ratio:

«La nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come l’epoca della “post-modernità”. (…) Il termine è stato dapprima impiegato a proposito di fenomeni d’ordine estetico, sociale, tecnologico. Successivamente è stato trasferito in ambito filosofico (…) le correnti di pensiero che si richiamano alla post-modernità meritano un’adeguata attenzione. Secondo alcune di esse, infatti, il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato, l’uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all’insegna del provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori, nella loro critica demolitrice di ogni certezza, ignorando le necessarie distinzioni, contestano anche le certezze della fede. Questo nichilismo trova in qualche modo una conferma nella terribile esperienza del male che ha segnato la nostra epoca. Dinanzi alla drammaticità di questa esperienza, l’ottimismo razionalista che vedeva nella storia l’avanzata vittoriosa della ragione, fonte di felicità e di libertà, non ha resistito, al punto che una delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione della disperazione». (n. 91)

LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

Consapevole che dagli anni Sessanta o addirittura dalla fine della Prima Guerra mondiale alcune regioni dell’Occidente sono diventate terre di missione, Giovanni Paolo II propone la nuova evangelizzazione, che viene evocata per la prima volta in un discorso al Celam (l’organo che riunisce le conferenze episcopali latinoamericane) nel 1983. Ma i testi magisteriali che sviluppano organicamente questa intuizione sono Redemptoris missio (1990), Tertio millennio adveniente (1994) e Novo millennio ineunte (2001).

«La nuova evangelizzazione», spiega Eijk, «non è la trasmissione di un nuovo Vangelo che nascerebbe da noi stessi e sarebbe solo un’invenzione umana che non porta la salvezza, né si tratta di eliminare dal Vangelo ciò che appare inaccettabile alla mentalità odierna. Non si deve adattare il Vangelo alla cultura, ma al contrario occorre cristianizzare le culture. Avendo attenzione a tutte le complessità dell’inculturazione, che salva e trasforma gli autentici valori di una cultura immettendoli nel cristianesimo».

GUARDARE A CRISTO, NON SOLO A SÉ

Evangelizzare gli uomini della post-modernità implica alcune attenzioni: «Come ha detto Benedetto XVI, “la fede cristiana (…) nasce non dall’accoglienza di una dottrina, ma dall’incontro con una Persona”, e come ha detto Paolo VI, “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri”. Occorre proporre di cercare e guardare il volto di Cristo anziché ripiegarsi sulla propria coscienza di sé. L’uomo post-moderno mette sopra a tutto la libertà di scelta: Cristo va proposto, mai imposto. Giovanni Paolo II insiste molto sulla libertà religiosa, sul fatto che non si può forzare l’uomo a fare qualcosa contro la propria coscienza».

Il cristianesimo può integrare i temi della filosofia post-moderna come ha integrato Platone e Aristotele? «Certamente non può integrare il disincanto nei confronti delle grandi narrazioni, ma l’affermazione che l’uomo moderno che si crede libero in realtà non lo è e la concentrazione sulla vicenda biografica come alternativa ai grandi sistemi aprono la porta all’annuncio di Cristo che rende veramente liberi e alla testimonianza personale cristiana. Occorre poi ricordare che sempre la Chiesa ha avuto bisogno di un certo tempo per formulare una risposta significativa alla sfida di una certa epoca: Lutero affigge le sue tesi nel 1517, il Concilio di Trento si svolge fra il 1545 e il 1563».

«NON DOBBIAMO AVERE PAURA»

La grande lezione di Giovanni Paolo II sta nel fatto che non si limitò a teorizzare la nuova evangelizzazione, ma la praticò in prima persona e incoraggiò gli altri a farlo: «Non ha avuto paura di quella che sembrava una “mission impossible”. Ha viaggiato fino agli estremi confini della Terra per annunciare Cristo, e ha continuato a farlo quando era malato, senza paura di mostrare la debolezza, senza nascondere la sofferenza. A noi vescovi regalava croci pettorali con impressa la scritta “Duc in altum”, cioè “Prendete il largo e sulla mia parola gettate le reti”: le parole con cui Cristo invita ad avere fede in Lui. Del valore di alcuni insegnamenti di questo papa, soprattutto della sua teologia del corpo, ci renderemo conto meglio fra qualche decennio. Non dobbiamo avere paura, perché anche la cultura post-moderna finirà e verranno tempi più propizi, più aperti all’evangelizzazione».

Fonte: | Tempi.it

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